
Le persone in condizioni di disabilità, malattia grave o non autosufficienza rappresentano una fascia di popolazione che richiede una tutela particolare sia in famiglia che nelle decisioni sanitarie. La Costituzione italiana pone il diritto alla salute al centro dell’ordinamento (art. 32 Cost.) e riconosce la dignità e i diritti inviolabili di ogni individuo, compresi i più deboli. Negli ultimi anni il legislatore e i tribunali hanno rafforzato gli strumenti di protezione per questi soggetti, con un’attenzione crescente a bilanciare la cura con il rispetto dell’autonomia personale. Come scriveva Pearl S. Buck, «La prova di una civiltà sta nel modo in cui si prende cura dei suoi membri più deboli.» Questa frase sottolinea che il grado di civiltà di una società si misura dall’impegno nel proteggere chi è fragile. Vediamo dunque quali sono le novità più rilevanti in materia di tutela legale dei pazienti fragili, tra ambito familiare e sanitario, e in che modo queste garantiscono assistenza mirata senza inutili limitazioni della libertà individuale.
Il fondamento di ogni tutela risiede nei principi costituzionali: l’art. 2 Cost. tutela i diritti inviolabili dell’uomo, imponendo solidarietà sociale, mentre l’art. 32 Cost. assicura il diritto alla salute e cure gratuite agli indigenti. Su questo solco, la legislazione ha predisposto strumenti specifici. Un ruolo chiave lo svolge la legge 22 dicembre 2017 n. 219, che ha introdotto nell’ordinamento italiano il principio del consenso informato e delle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT). Questa legge afferma che “Voluntas aegroti suprema lex” – la volontà del malato è legge suprema: ogni persona capace ha diritto di accettare o rifiutare liberamente qualsiasi trattamento sanitario, incluso il diritto di definire in anticipo i trattamenti desiderati o meno per il futuro, qualora venga a trovarsi in condizioni di incapacità. In caso di paziente non in grado di decidere, la legge prevede che sia coinvolto un rappresentante legale (tutore, curatore o amministratore di sostegno) ovvero, in mancanza, i familiari e il medico, sempre tenendo conto della volontà espressa dalla persona in passato. Nessun trattamento può essere iniziato o proseguito senza il consenso informato, salvo i casi espressamente previsti dalla legge (come il trattamento sanitario obbligatorio nei casi e con le modalità stabilite dalla normativa). Anche per i minori o incapaci, l’art. 3 della legge 219/2017 garantisce il diritto a ricevere informazioni e ad esprimere la propria volontà per quanto possibile, coinvolgendo chi esercita la responsabilità genitoriale o la tutela nelle decisioni, ma valorizzando le capacità di comprensione residuate del soggetto fragile.
Parallelamente, altre norme mirano a sostenere concretamente le famiglie che si prendono cura di congiunti disabili o anziani malati. Ad esempio, la recente legge sul “Dopo di noi” (L. 112/2016) ha previsto agevolazioni fiscali e strumenti giuridici (trust, vincoli di destinazione, fondi speciali) per garantire assistenza alle persone con disabilità grave anche dopo la morte dei genitori, evitando che restino prive di supporto. Inoltre, sono stati introdotti congedi lavorativi straordinari e permessi retribuiti (Legge 104/1992 e s.m.i.) per i caregiver familiari, riconoscendo il valore dell’assistenza prestata dai parenti al malato. Queste misure mostrano una tendenza chiara: il sistema giuridico italiano sta cercando di creare una rete di protezione integrata, in cui il Servizio Sanitario, lo Stato e la famiglia collaborino per il bene del soggetto fragile, sollevando il più possibile quest’ultimo – e chi se ne prende cura – da oneri e difficoltà ulteriori.
Tra gli strumenti giuridici più importanti per assistere persone non pienamente autonome c’è l’amministrazione di sostegno, introdotta con la Legge 9 gennaio 2004 n. 6. Questo istituto è pensato per affiancare la persona fragile nella gestione di determinati atti e decisioni, senza privarla totalmente della capacità di agire. A differenza delle misure più drastiche del passato – interdizione e inabilitazione, ormai residuali – l’amministrazione di sostegno viene modellata dal giudice “su misura” delle esigenze del beneficiario: nel decreto di nomina il Giudice Tutelare specifica puntualmente quali atti l’amministratore è autorizzato a compiere in nome e per conto dell’interessato e quali invece quest’ultimo conserva in autonomia. Spesso è la stessa famiglia a richiedere la nomina di un amministratore di sostegno per proteggere un congiunto (si pensi a un genitore anziano con decadimento cognitivo incipiente, o a un figlio disabile adulto per il quale occorre gestire patrimoni e cure). L’obiettivo dichiarato dalla legge è di assistere senza espropriare: l’amministratore sostituisce o integra la volontà del beneficiario solo dove strettamente necessario, lasciando a quest’ultimo la libertà di decidere in tutto il resto.
Nel 2025 la giurisprudenza ha ulteriormente delineato i confini di un uso corretto e non abusivo di questo istituto. La Cassazione civile ha emesso pronunce molto significative, ribadendo che l’amministrazione di sostegno non va disposta con leggerezza né contro la volontà della persona se questa, malgrado le sue difficoltà, è ancora in grado di compiere scelte per sé. In particolare, con Cass. civ., Sez. I, ord. n. 5088/2025 la Suprema Corte ha annullato la nomina di un amministratore di sostegno che era stata decisa in assenza di reali incapacità del beneficiario. Il caso riguardava un giovane adulto molto legato alla madre e da lei influenzato: secondo i giudici di merito la sua “sudditanza psicologica” avrebbe giustificato la misura. La Cassazione ha invece affermato un principio chiaro: non basta una generica condizione di fragilità emotiva o dipendenza affettiva per limitare la capacità di agire di una persona. In assenza di prove concrete che l’individuo sia incapace di curare i propri interessi, imporre un amministratore di sostegno costituisce una violazione dei suoi diritti fondamentali, in primis il diritto all’autodeterminazione e alla dignità personale.
Su questa linea si pone anche Cass. civ., Sez. I, ord. n. 6584/2025, relativa a un anziano al quale era stato assegnato d’ufficio un amministratore nonostante la sua opposizione. L’uomo, pur affetto da una grave disabilità fisica (non poteva parlare), viveva da solo gestendo la quotidianità con ausili tecnologici e riusciva a manifestare chiaramente la propria volontà. I giudici di merito avevano motivato la nomina soprattutto con alcune imprudenze economiche commesse dall’anziano (spendeva l’intera pensione senza risparmiare e tardava nel pagamento dell’affitto). La Cassazione ha cassato questo provvedimento, definendolo intrinsecamente contraddittorio: da un lato si riconosceva che il beneficiario era lucido e capace di autodeterminarsi, dall’altro lo si privava comunque della libertà gestionale. I supremi giudici hanno sottolineato due punti: primo, bisogna valutare se le limitazioni funzionali della persona possano essere superate con strumenti di supporto (tecnologie assistive, aiuti domiciliari, rete familiare) prima di dichiararla “incapace” – oggi molte disabilità fisiche possono essere compensate senza ricorrere a rappresentanti legali; secondo, anche scelte di vita discutibili (come dilapidare i propri soldi) rientrano nella sfera di autodeterminazione dell’individuo, finché egli è in grado di intendere e volere. Trasformare qualcuno in incapace quando, con opportuni sostegni, potrebbe provvedere da sé, significa tradire la sua dignità intrinseca. “Summum ius, summa iniuria” – l’applicazione eccessivamente rigorosa della legge può diventare la massima ingiustizia, soprattutto se finisce per soffocare, anziché sostenere, la persona che si voleva tutelare.
Alla luce di queste pronunce, appare evidente l’indirizzo attuale: l’amministrazione di sostegno dev’essere l’extrema ratio, da applicare con cautela e proporzionalità. Il giudice, prima di limitare la capacità d’agire di qualcuno, deve motivare in modo stringente la necessità della misura e verificare che non esistano soluzioni meno invasive. Inoltre, quando viene nominato un amministratore, le sue funzioni devono essere limitate a ciò che il beneficiario non può fare da solo, e periodicamente il decreto va rivisto per adeguarlo alle condizioni attuali della persona (che potrebbero migliorare). In questo senso si è espressa anche Cass. civ., Sez. I, ord. n. 15189/2025, chiarendo che i procedimenti relativi agli amministratori di sostegno devono svolgersi con particolare rapidità e competenza: eventuali reclami contro le decisioni del Giudice Tutelare vanno proposti alla Corte d’Appello, organo in grado di garantire una visione specializzata e tempi ragionevoli, così da evitare che lungaggini processuali finiscano per nuocere al soggetto fragile.
Un ambito delicatissimo in cui famiglia, medicina e diritto si intrecciano è quello delle decisioni sulle cure mediche per i pazienti incapaci di intendere e volere. Chi esprime il consenso informato a un intervento chirurgico, a una terapia rischiosa o al rifiuto di trattamenti salvavita quando il paziente non è cosciente o non possiede la capacità mentale per decidere? La risposta legislativa, come accennato, si trova nella legge 219/2017: il rappresentante legale della persona (tutore o amministratore di sostegno) è chiamato a dare o negare il consenso in sua vece, sempre tenendo conto della volontà previamente espressa dal paziente e del suo miglior interesse. In assenza di una nomina formale, vengono coinvolti il coniuge o i parenti prossimi insieme ai medici. L’amministratore di sostegno, in particolare, può essere autorizzato dal Giudice Tutelare ad assumere decisioni sanitarie: nel decreto di nomina il giudice può attribuirgli il potere di prestare il consenso a specifici trattamenti sanitari per conto del beneficiario, oppure un ruolo di assistenza nelle scelte terapeutiche.
Va sottolineato che anche in questo campo il principio guida resta il rispetto della persona: l’art. 410 del codice civile impone all’amministratore di sostegno di agire in modo da “soddisfare i bisogni e gli interessi del beneficiario” e, per quanto possibile, di coinvolgerlo nelle decisioni. Se il beneficiario stesso è in grado di comprendere la situazione, deve essere ascoltato e la sua eventuale opposizione a un trattamento sanitario non può essere ignorata. La legge predispone infatti un meccanismo di risoluzione dei conflitti: in caso di disaccordo tra amministratore (o tutore) e personale medico sul da farsi, la questione viene portata all’attenzione del Giudice Tutelare (art. 3, co.5 legge 219/2017). Viceversa, se è il paziente beneficiario a dissentire rispetto a quanto proposto dall’amministratore di sostegno e dai sanitari, il giudice dovrà tenerne conto e decidere il da farsi, bilanciando la necessità di cura con la volontà espressa dalla persona. Si tratta di valutazioni estremamente delicate, in cui entrano in gioco il diritto alla vita, alla salute ma anche alla libertà di cura e di rifiuto delle cure.
Un esempio estremo di intervento sanitario contro la volontà del paziente è il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) per disturbi psichiatrici gravi, previsto dalla legge n. 833/1978. Anche qui si registrano importanti novità giurisprudenziali volte a rafforzare le garanzie. La Corte Costituzionale, sent. n. 76/2025 ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 35 della legge 833/1978 proprio nella parte in cui non prevedeva adeguate tutele procedurali per la persona sottoposta a TSO. In particolare, la Consulta ha stabilito che il provvedimento con cui il Sindaco dispone il ricovero sanitario obbligatorio deve essere immediatamente comunicato all’interessato o al suo rappresentante, informandolo del diritto di nominare un difensore e di opporsi, e che il paziente ha diritto a essere sentito personalmente dal Giudice Tutelare prima che questi convalidi il trattamento. Si tratta di garanzie fondamentali di contraddittorio e difesa, prima mancanti, introdotte per evitare che un ricovero coatto – misura gravemente limitativa della libertà personale – avvenga in maniera unilaterale senza dare voce al diretto interessato. Questa decisione s’inserisce in un percorso più ampio di umanizzazione e legalità del TSO, iniziato con la Legge Basaglia (L. 180/1978) che abolì i manicomi e proseguito con varie riforme: l’obiettivo è assicurare che anche quando la salute pubblica impone un intervento forzato, la dignità e i diritti del malato siano preservati il più possibile. È emblematico che la Cassazione, già nel noto caso Englaro, avesse affermato che la salute non è solo un mero stato clinico ma coinvolge la sfera personale e la percezione di sé: proprio per questo il diritto all’autodeterminazione terapeutica va garantito anche alle persone con disabilità, compatibilmente con la tutela della vita. Le nuove norme e sentenze richiedono quindi agli amministratori di sostegno, ai medici e ai giudici un approccio attento e individualizzato: ogni decisione sulle cure dev’essere presa “con” la persona fragile, non semplicemente “per” la persona fragile, cercando di interpretarne la volontà e il bene nel caso concreto.
Oltre agli aspetti legati alle decisioni sanitarie, un altro fronte cruciale è quello dei costi delle cure e di chi debba farsene carico. Spesso infatti la fragilità ha un risvolto economico notevole: ricoveri in strutture, assistenza continua, trattamenti costosi. La domanda che molte famiglie si pongono è: in che misura queste spese spettano al Servizio Sanitario Nazionale e quando invece possono essere chieste ai parenti? La risposta dipende dalla natura delle prestazioni fornite. La legge distingue tra prestazioni sanitarie (a carico dello Stato) e prestazioni socio-assistenziali (dove è possibile una partecipazione dell’utente). Negli ultimi anni, la giurisprudenza ha chiarito il confine, evitando abusi da parte di enti locali o strutture.
Una pronuncia di svolta è la Cass. civ., Sez. III, ord. n. 33394/2024. In questo caso un’amministrazione locale pretendeva che i familiari di una paziente malata di Alzheimer pagassero la retta della RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale) in cui era ricoverata. L’amministratore di sostegno della signora si è opposto, sostenendo che, trattandosi di cure di elevata integrazione sanitaria (assistenza continua con personale medico-infermieristico specializzato), il costo dovesse gravare sul sistema sanitario pubblico. La vicenda è giunta in Cassazione dopo che i giudici di merito avevano in parte dato ragione alla famiglia e in parte confermato l’onere a loro carico. La Suprema Corte, con l’ordinanza citata, ha stabilito un principio fondamentale: quando le prestazioni fornite hanno carattere prevalentemente sanitario, la retta non può essere scaricata sui parenti. In altre parole, occorre distinguere: se la struttura fornisce essenzialmente cure mediche e infermieristiche (prestazioni sanitarie ad alta integrazione), queste devono essere a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale; solo gli eventuali servizi aggiuntivi di tipo alberghiero o sociale possono richiedere un contributo economico da parte del paziente o dei familiari. Applicando questo criterio al caso concreto, la Cassazione ha ritenuto illegittima la richiesta di pagamento rivolta alla famiglia della paziente Alzheimer, perché la componente sanitaria dell’assistenza era nettamente prevalente (trattamenti terapeutici quotidiani, monitoraggio clinico costante, presenza di un nucleo specializzato per malati di Alzheimer). La quota di retta relativa a tali cure doveva dunque essere coperta dalla sanità pubblica.
Questa decisione – insieme ad altre analoghe di merito, ad esempio della Corte d’Appello di Trento nel 2020 – rappresenta una grande vittoria per i diritti dei non autosufficienti e dei loro cari. Spesso in passato le famiglie hanno sostenuto spese molto gravose per ricoveri in RSA o lungodegenze, quando invece avevano diritto all’esenzione. Ora, con questo principio ben delineato, molte potrebbero richiedere la restituzione di quanto indebitamente pagato. Più in generale, il messaggio della giurisprudenza è chiaro: la tutela della salute non può dipendere dalle disponibilità economiche dei pazienti o dei loro parenti. Se una persona fragile necessita di cure continue perché le sue condizioni cliniche lo impongono, tali cure rientrano nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) garantiti dallo Stato su tutto il territorio nazionale. Gli enti pubblici non possono scaricare i costi sui cittadini appellandosi a cavilli o distinguo artificiosi. Come ha sancito anche la Corte Costituzionale (sent. n. 195/2024), le esigenze di bilancio non possono mai comprimere i diritti fondamentali: non è ammissibile risparmiare risorse tagliando la spesa sanitaria indispensabile per garantire cure dignitose ai malati. “La sanità è un diritto, non una voce di bilancio”, si potrebbe dire: un concetto ribadito con forza dai giudici, che hanno imposto di anteporre sempre il diritto alle cure ai meri vincoli contabili.
In conclusione, il panorama attuale vede un significativo avanzamento delle tutele giuridiche per le persone fragili, grazie a riforme legislative mirate e a una giurisprudenza coraggiosa e innovativa. Il filo conduttore è la ricerca di un equilibrio virtuoso: da un lato garantire a chi è debole tutta l’assistenza necessaria – sia in termini di supporto decisionale, che di cure mediche, che di sostegno economico – dall’altro evitare ogni approccio paternalistico che annulli inutilmente la volontà del soggetto interessato. La dignità umana resta la stella polare. Un sistema giuridico veramente civile si riconosce dalla capacità di proteggere i più deboli rafforzandone, anziché annientandone, la libertà. Ciò significa, in concreto, rispettare le scelte del malato sulla propria vita (nei limiti in cui non ledano altri), coinvolgerlo attivamente quando possibile, e farsi carico come collettività dei bisogni di chi non può farcela da solo. Il principio di solidarietà intergenerazionale e sociale richiede che la famiglia non venga lasciata sola: lo Stato deve fornire servizi, risorse e sostegni adeguati affinché prendersi cura di un anziano non autosufficiente o di un familiare disabile non diventi un calvario economico e burocratico. Allo stesso tempo, gli strumenti legali come l’amministrazione di sostegno devono essere utilizzati in modo da potenziare le residue capacità della persona, non da soffocarle.
Le parole di Antoine de Saint-Exupéry ci ricordano: «Tu diventi responsabile per sempre di ciò che hai addomesticato.» Chiunque – un familiare, un amministratore di sostegno professionale, le istituzioni – si faccia carico di assistere una persona fragile assume una responsabilità morale e giuridica enorme. Quella responsabilità implica agire con cura, competenza e rispetto, tenendo sempre al centro il bene e la volontà dell’individuo assistito. Le novità normative e le sentenze analizzate confermano proprio questo approccio etico: la migliore tutela è quella che sa intervenire dove serve ma farsi da parte quando non è necessaria, lasciando spazio all’individuo. In definitiva, il sistema sta evolvendo verso modelli più inclusivi e rispettosi, in cui la persona fragile non è più vista come un oggetto passivo di protezione, bensì come un soggetto attivo, portatore di diritti, desideri e aspirazioni da ascoltare. Continuare su questa strada significa costruire una società più giusta e solidale, in cui nessuno venga lasciato indietro e in cui la legge sia davvero al servizio della persona – hominum causa omne ius constitutum est, ogni diritto è stabilito per la centralità dell’essere umano – soprattutto quando quella persona è la più debole tra noi.
Redazione - Staff Studio Legale MP