
Negli ultimi anni il legislatore italiano ha avviato una profonda revisione del sistema di accertamento dell’invalidità e della disabilità, per adeguarlo ai princìpi della Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità. Il fulcro di questa riforma è il decreto legislativo 3 maggio 2024 n. 62, emanato in attuazione della legge delega n. 227/2021. Tale decreto ha introdotto una serie di cambiamenti significativi, a partire dal linguaggio giuridico: termini come “handicap” e “invalidità” vengono sostituiti dall’espressione “persona con disabilità”, recependo una terminologia più rispettosa e inclusiva. In parallelo, il decreto ha previsto nuovi strumenti e concetti operativi, tra cui l’accomodamento ragionevole (ora inserito nell’art. 5-bis della legge 104/1992) e il progetto di vita individuale personalizzato. Queste innovazioni mirano a spostare l’attenzione dalla mera percentuale di invalidità al soddisfacimento concreto dei bisogni della persona disabile, in una prospettiva di inclusione e sostegno effettivo.
Dal punto di vista degli accertamenti medico-legali, la riforma 2024 rappresenta una vera e propria rivoluzione. Viene introdotta la valutazione di base, ovvero un procedimento unico e multidisciplinare per accertare la condizione di disabilità e l’intensità dei supporti necessari. In passato, il percorso per ottenere il riconoscimento dell’invalidità civile o dei benefici della legge 104 era spesso frammentato: il cittadino doveva prima ottenere un certificato medico introduttivo dal medico curante, quindi presentare una domanda amministrativa all’INPS, essere sottoposto a visita da parte di una commissione sanitaria ASL integrata da un medico INPS, e infine attendere l’omologa o eventuali verifiche successive dell’INPS. I tempi burocratici erano lunghi e le procedure ridondanti, con tempi medi spesso superiori ai 140 giorni (a fronte di un termine di legge di 120 giorni), ritardi che potevano causare notevoli disagi economici e sociali alle persone in attesa dei benefici. Salus aegroti suprema lex: il benessere del malato è legge suprema, dicevano gli antichi, e proprio per garantire concretezza a questo principio il sistema andava ammodernato. La nuova normativa punta a semplificare e unificare l’iter di accertamento, eliminando passaggi duplicativi e velocizzando le risposte.
Il cardine della riforma è che, a regime, l’INPS diventa l’unico ente accertatore della disabilità e dell’invalidità civile. La valutazione di base verrà effettuata in un’unica visita collegiale presso l’INPS, da parte di una Unità di Valutazione di Base (UVB) composta da più figure: un medico specialista in medicina legale (presidente), altri due medici nominati dall’INPS (ad esempio specialisti delle patologie oggetto di valutazione), un rappresentante delle associazioni delle persone con disabilità e uno psicologo o assistente sociale. Si tratta di commissioni multidisciplinari che, in un solo incontro, dovranno esaminare la documentazione clinica e valutare la persona sotto il profilo sanitario-funzionale, secondo i nuovi criteri dettati dal decreto. Vengono espressamente richiamati parametri internazionali come le classificazioni ICD e ICF dell’OMS, per adottare un approccio più oggettivo e globale alla disabilità, non limitato alle menomazioni fisiche ma esteso all’impatto sulle attività e partecipazione sociale.
Dal 1° gennaio 2025 è partita una fase di sperimentazione della riforma in alcune aree pilota: inizialmente 9 province (tra cui Brescia, Firenze, Perugia, Salerno, etc.), cui si sono aggiunti dal 30 settembre 2025 ulteriori territori (come Genova, Palermo, Lecce, nonché la Valle d’Aosta e la Provincia di Trento). In queste zone, le nuove procedure di accertamento sono già operative e hanno sostituito il vecchio iter. Significa che chi risiede in una provincia sperimentale e deve richiedere il riconoscimento dell’invalidità civile, della legge 104/1992, dell’indennità di accompagnamento o di altre provvidenze collegate, dal 2025 segue il nuovo percorso semplificato. Questo prevede che sia il medico certificatore stesso – una figura abilitata che può essere il medico di base, uno specialista del SSN o di strutture convenzionate, ecc. – a compilare online un certificato medico introduttivo secondo il modello rinnovato e a inviarlo telematicamente all’INPS. Non è più richiesta la “domanda amministrativa” da parte del cittadino o del patronato: il certificato medico stesso vale come istanza unica che avvia il procedimento. Una volta ricevuto il certificato, l’INPS convoca l’interessato a visita collegiale tramite PEC o raccomandata (l’assenza non giustificata è considerata rinuncia, anche se resta la possibilità di chiedere una nuova convocazione in caso di impedimenti documentati). Nel frattempo il cittadino può – ma non è obbligato – comunicare all’INPS i propri dati socio-economici (reddito, composizione familiare, situazione lavorativa) attraverso l’apposito portale, per accelerare la liquidazione di eventuali benefici economici dopo la visita.
Durante la fase transitoria, si è posto il problema di gestire le pratiche in corso con il vecchio sistema nelle province che passavano al nuovo. L’INPS ha chiarito che tutti i certificati medici “vecchio modello” emessi prima del cambio dovevano essere completati dalla relativa domanda amministrativa entro la data di avvio della sperimentazione locale (es. entro il 29 settembre 2025 per le province della seconda fase); decorso quel termine, i vecchi certificati non sarebbero più stati validi e sarebbe necessario ripresentare la richiesta con le nuove modalità. Questa accortezza ha evitato confusione e interruzioni nelle tutele durante il passaggio di sistema.
L’obiettivo dichiarato è di estendere la valutazione di base unificata a tutto il territorio nazionale entro il 1° gennaio 2027. Ciò significa che, a regime, tutte le commissioni medico-legali delle ASL confluiranno in questo procedimento gestito centralmente da INPS. Il vantaggio per i cittadini sarà duplice: da un lato una maggiore rapidità nell’esito (grazie alla digitalizzazione e all’eliminazione di passaggi burocratici superflui), dall’altro una maggiore uniformità di giudizio sul territorio nazionale, riducendo le disparità che in passato si potevano riscontrare tra diverse commissioni locali. Inoltre, la presenza di rappresentanti delle associazioni e di esperti psico-sociali nelle UVB dovrebbe garantire valutazioni più aderenti alla realtà quotidiana della persona disabile, e non solo al mero dato medico. Ad esempio, l’accertamento non si limiterà a constatare le menomazioni, ma dovrà considerare anche le barriere (fisiche e sociali) che limitano la partecipazione dell’individuo e la necessità di sostegni specifici.
Nonostante la riforma miri a semplificare l’esperienza dell’utente, resta fondamentale conoscere i propri diritti e gli strumenti di tutela nel percorso di accertamento. Anzitutto, va ricordato che permane il diritto di ricorso avverso un eventuale esito sfavorevole della visita medica. Se la valutazione di base INPS nega o riconosce in misura insufficiente lo status di invalido civile o handicap grave (legge 104 art.3 comma3), l’interessato può agire in giudizio per far valere le proprie ragioni. La procedura giudiziaria in materia è quella delineata dall’art. 445-bis c.p.c.: si propone un ricorso al Tribunale in funzione di giudice del lavoro, il quale in genere nomina un proprio consulente tecnico d’ufficio (CTU) per riesaminare il caso. È un passaggio cruciale dove spesso emerge la necessità di una consulenza medico-legale di parte, affinché vengano rappresentate adeguatamente le condizioni di salute del ricorrente e contestate eventuali valutazioni scorrette della commissione INPS. Proprio alla luce delle nuove impostazioni, sarà importante che anche i CTU e i periti di parte adottino i criteri più aggiornati e in linea con i principi sanciti dalla Cassazione (come vedremo oltre sull’indennità di accompagnamento), superando vecchi schemi troppo rigidi.
Un’altra tutela fondamentale riguarda i tempi del procedimento. La legge fissa in 120 giorni il termine entro cui l’INPS dovrebbe concludere l’iter sanitario dall’invio della domanda/certificato. In caso di ritardi eccessivi, il cittadino non è privo di rimedi: può sollecitare formalmente la definizione della pratica e, nei casi più gravi, valutare un’azione legale per il danno da ritardo. Recenti pronunce di merito hanno riconosciuto che l’attesa oltre termini ragionevoli per l’accertamento dell’invalidità può causare un pregiudizio concreto (perdita di mesi di erogazioni economiche, aggravamento delle difficoltà senza supporti, etc.), suscettibile di ristoro. Ad esempio, alcuni tribunali hanno condannato l’INPS a risarcire il danno subito dall’assistito per i mesi di ingiustificato ritardo nell’espletamento delle visite o nella concessione dei benefici, riconoscendo una responsabilità dell’ente previdenziale in caso di inerzia oltre i limiti normativi. Fortunatamente, la digitalizzazione e la nuova procedura telematica introdotte nel 2025 puntano proprio a evitare tali situazioni, rendendo più celere la convocazione a visita e l’esito finale. Tuttavia, è bene sapere che la persona con disabilità ha il diritto di non subire lungaggini ingiustificate: qualora si verifichino, può e deve far valere le proprie ragioni, anche con l’assistenza di un legale, affinché venga rimosso ogni ostacolo burocratico alla pronta tutela dei suoi diritti.
Un campo specifico in cui la giurisprudenza recente ha inciso profondamente sugli accertamenti medico-legali è quello dell’indennità di accompagnamento. Questa prestazione economica, lo ricordiamo, spetta agli invalidi civili al 100% che si trovino nell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore, oppure nell’impossibilità di compiere gli atti quotidiani della vita senza assistenza continua. I criteri applicativi di questi requisiti sono stati a lungo oggetto di interpretazioni restrittive da parte delle commissioni: bastava che la persona conservasse un minimo di autonomia (ad esempio riuscisse a fare qualche passo con un bastone) perché spesso venisse negato il diritto all’indennità, sostenendo che non vi fosse una totale impossibilità a camminare.
Di recente la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza 23 ottobre 2025 n. 28212 ha affermato un principio destinato a cambiare questo approccio. La Suprema Corte ha infatti chiarito che la necessità di “supervisione continua” nella deambulazione equivale all’aiuto permanente richiesto dalla legge. In altre parole, se un disabile può muoversi solo a patto che ci sia sempre accanto a lui una persona pronta a sorreggerlo o intervenire per evitare cadute, ci troviamo di fronte a una mancanza di autonomia equiparabile alla condizione di chi non può materialmente camminare. Ciò che rileva non è soltanto la capacità astratta di compiere il passo, ma la sicurezza con cui l’attività viene svolta: un elevato rischio di caduta o di incidenti rende la deambulazione di fatto impossibile in autonomia. La Cassazione ha evidenziato come questo concetto di “vigilanza costante” risponda pienamente alla finalità della norma, che è prevenire danni e garantire la tutela della persona non autosufficiente. Dunque, un disabile che per camminare necessita sempre di una persona al fianco – anche solo per sorvegliarlo più che per sorreggerlo – deve essere considerato a tutti gli effetti privo di autonomia nella deambulazione e ha diritto all’indennità di accompagnamento.
Questo pronunciamento ha un impatto pratico immediato sugli accertamenti medico-legali INPS: le commissioni, nelle loro valutazioni, non possono più limitarsi a verificare se il soggetto compie fisicamente qualche passo, ma devono considerare se lo può fare in condizioni di sicurezza e senza sorveglianza altrui. Vengono così superati anche alcuni parametri prima utilizzati in modo troppo rigido, come le scale di autonomia funzionale (ad esempio il Barthel Index): punteggi che indicano una residua capacità di compiere alcune attività quotidiane non possono escludere il diritto all’accompagnamento, se comunque è accertato che la persona non può camminare in modo sicuro senza assistenza. La Cassazione ha ribadito che i due requisiti previsti dalla legge 18/1980 per l’indennità (incapacità di deambulare da una parte, oppure necessità di assistenza negli atti quotidiani dall’altra) sono alternativi: basta che ne ricorra uno per avere diritto al beneficio. Pertanto, anche se un invalido riesce ancora a nutrirsi o vestirsi da solo, potrebbe comunque ottenere l’indennità qualora risulti soddisfatto l’altro requisito della deambulazione gravemente compromessa sul piano della sicurezza personale.
Per gli operatori del diritto previdenziale, questa sentenza rappresenta un precedente fondamentale. Gli avvocati potranno invocarla nei ricorsi contro valutazioni medico-legali ritenute troppo restrittive, facendo valere che “supervisione continua” = “aiuto permanente”. Allo stesso modo, i medici legali (sia delle commissioni che quelli nominati dai giudici) dovranno tenerne conto: nelle loro relazioni dovranno dar rilievo alla presenza di un rischio concreto di cadute o incidenti, utilizzando proprio termini come “andatura insicura con necessità di supervisione costante”, perché è questo genere di descrizione funzionale che la Cassazione indica come decisiva. Si tratta, in definitiva, di un significativo passo avanti verso valutazioni più eque, che tengano conto non solo delle capacità residue “su carta”, ma anche delle reali condizioni di vita della persona disabile. «È la pietà che distingue i giusti dai malvagi», scriveva Alessandro Manzoni: garantire diritti a chi non può camminare sicuro senza aiuto è un dovere di civiltà prima ancora che un’applicazione di legge.
Il tema degli accertamenti medico-legali non riguarda solo le procedure per ottenere benefici assistenziali, ma anche la quantificazione del danno biologico nei casi di responsabilità medica e risarcimento del danno. Anche in questo ambito si sono avute importanti novità giurisprudenziali nel 2025. In particolare, la Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, con sentenza 25 giugno 2025 n. 17006 ha affrontato il delicato caso di un paziente minorenne che, a seguito di un intervento chirurgico mal eseguito, aveva riportato un grave esito invalidante (l’accorciamento di un arto inferiore). La Corte d’Appello, pur accertando la colpa medica e condannando i responsabili al risarcimento, aveva però ridotto l’entità del danno riconosciuto al ragazzo al 45%, motivando in base ad una patologia preesistente del paziente che, a loro dire, contribuiva in parte alla sua invalidità finale. I familiari della vittima hanno contestato questa decurtazione, ritenendola ingiustificata, e in Cassazione hanno ottenuto una vittoria destinata a fare scuola: la Suprema Corte ha stabilito che la presenza di una patologia o menomazione pregressa nel soggetto leso non può giustificare, di per sé, una riduzione automatica del risarcimento, a meno che non se ne dimostri l’effettiva incidenza causale sul danno attuale. In sostanza, occorre applicare il criterio della prognosi postuma: immaginare quale sarebbe stata la condizione finale del paziente in assenza dell’errore medico, tenendo conto della sua situazione preesistente. Se si accerta che anche un individuo sano, subendo quell’errore, avrebbe riportato le medesime conseguenze invalidanti, allora la patologia pregressa è irrilevante ai fini del risarcimento – che dovrà coprire tutto il danno. Solo se invece si prova che la situazione preesistente ha aggravato il risultato (ad esempio perché il danno da malasanità si è innestato su un quadro già compromesso, peggiorandolo in modo differente rispetto a un soggetto sano), allora si potrà tenere conto della diversità, limitatamente a decurtare la quota di danno non causata dall’illecito.
La Cassazione n. 17006/2025 ha cassato la decisione dei giudici di merito perché questi ultimi si erano limitati a indicare una percentuale riduttiva (quel 45%) senza spiegare adeguatamente il perché, e senza chiarire se la patologia pregressa del ragazzo avesse realmente inciso sulle conseguenze finali. La Corte Suprema ha ribadito un concetto cruciale di causalità giuridica: il concorso di cause naturali preesistenti non esclude la responsabilità del colpevole secondo il principio dell’equivalenza causale (art. 41 c.p.), salvo che tali cause si configurino come fattori concorrenti nel determinare un esito meno grave. In assenza di prova rigorosa su questo punto, la patologia pregressa va considerata una mera “concausa coesistente” che non riduce affatto l’entità del danno risarcibile. Tradotto in pratica: il danneggiato va risarcito come se fosse una persona sana, laddove non vi siano elementi concreti che quantifichino un minor danno causato dall’illecito a motivo delle sue condizioni antecedenti. Questa sentenza è destinata a influenzare l’operato dei medici legali nelle CTU per cause di risarcimento: non sarà più accettabile applicare riduzioni forfettarie del punteggio di invalidità permanente attribuito a una vittima solo perché “già malata” di qualcos’altro, a meno di dimostrare in modo convincente la percentuale di danno realmente imputabile alla condizione preesistente. Viene così affermato un principio di equità sostanziale: ogni paziente ha diritto ad essere risarcito per intero del peggioramento subito a causa dell’errore medico, senza sconti arbitrari. Del resto “primum non nocere” è il principio base della medicina: se un intervento negligente ha arrecato un danno, la presenza di fragilità pregresse nel paziente non può diventare una scusa per dimezzare le responsabilità. Chi subisce un torto in ambito sanitario dev’essere tutelato pienamente, al netto solo di ciò che davvero non dipende dall’errore altrui.
A completare il quadro delle novità giurisprudenziali in materia di disabilità e accertamenti medico-legali, meritano un richiamo sintetico almeno altre due pronunce del 2025. La prima riguarda un aspetto processuale molto pratico: la soggettabilità a giudizio nei ricorsi per invalidità civile. Con l’ordinanza 14 ottobre 2025 n. 27458, la Corte di Cassazione (Sez. Lavoro) ha ribadito che nei procedimenti relativi all’accertamento dell’invalidità civile l’unico legittimato passivo è l’INPS, anche quando la controversia investe aspetti sanitari. In passato non era raro vedere chiamati in causa anche il Ministero della Salute o le ASL (che materialmente avevano svolto la visita tramite le proprie commissioni); la Cassazione ha chiarito una volta per tutte che, essendo l’INPS il titolare del procedimento e dell’erogazione delle provvidenze, solo esso deve comparire come convenuto nelle cause promosse dall’assistito. Questa precisazione snellisce i processi ed evita conflitti di competenza, assicurando che vi sia un unico ente responsabile in giudizio, senza scaricabarili.
La seconda pronuncia attiene invece ai permessi lavorativi retribuiti garantiti dalla legge 104/1992 ai familiari che assistono persone con disabilità grave. Anche qui la Cassazione, con un’ordinanza del 2025 (n. 23185/2025), è intervenuta per sottolineare il fondamento dei permessi: essi sono legittimi solo se utilizzati realmente per prestare assistenza al congiunto disabile. La vicenda esaminata riguardava un abuso di tali permessi e la Corte ha richiamato l’attenzione sul fatto che il beneficio è finalizzato esclusivamente alla cura del familiare in condizione di gravità, non a generiche esigenze personali del lavoratore. Questo indirizzo conferma la linea rigorosa già tenuta in passato contro le frodi, ma allo stesso tempo tutela chi ne usufruisce correttamente: l’importante è che il permesso sia dedicato all’accudimento, potendo comprendere anche attività indirettamente connesse (accompagnare a visite, disbrigo pratiche per il disabile, ecc.), purché nell’ottica di supportare la persona fragile.
Il panorama che emerge da queste riforme e pronunce è quello di un diritto della disabilità in evoluzione, sempre più attento alla sostanza rispetto alla forma. L’aggiornamento delle norme sugli accertamenti medico-legali e l’intervento della giurisprudenza mirano entrambi a un obiettivo comune: garantire tutele effettive alle persone più fragili, eliminando ingiustizie derivanti da formalismi o ritardi. Si pensi al valore simbolico, oltre che pratico, di chiamare finalmente “persona con disabilità” chi prima veniva etichettato come “invalido” o “handicappato”: non è solo un cambio di parole, ma il riflesso di un diverso approccio culturale, che vede la disabilità non come un marchio personale bensì come la risultante di una società che deve rimuovere le barriere. “La vera misura di una società si vede da come tratta i suoi membri più deboli”, affermava Hubert H. Humphrey. In quest’ottica, le istituzioni – legislatori, giudici, medici – stanno compiendo passi importanti per migliorare la condizione di chi vive situazioni di disabilità o di non autosufficienza.
Naturalmente, molto resta ancora da fare. L’effettività di queste novità dipenderà dalla loro attuazione pratica: le commissioni INPS dovranno essere ben formate e potenziate per reggere l’aumento di carico di lavoro; i tempi di risposta dovranno effettivamente accorciarsi; i consulenti tecnici dovranno allinearsi ai nuovi orientamenti giurisprudenziali; e soprattutto, bisognerà vigilare affinché nessuna persona venga lasciata indietro a causa di una svista burocratica o di una valutazione sommaria. In caso di difficoltà o dubbi nel percorso di accertamento, è consigliabile rivolgersi a professionisti esperti del settore legale-previdenziale per ottenere supporto.
Redazione - Staff Studio Legale MP