
Nel 2025 la giustizia italiana ha segnato una svolta epocale nella tutela dell’ambiente e della salute. Per la prima volta, tribunali e Corti supreme hanno apertamente riconosciuto il diritto al risarcimento di chi subisce danni da inquinamento atmosferico, industriale o climatico, rafforzando l’idea che l’ambiente sano è un diritto fondamentale. Di fronte a industrie inquinanti o agli effetti del cambiamento climatico, i cittadini non sono più soli: la recente giurisprudenza offre strumenti concreti per chiedere conto ai responsabili. Esaminiamo i punti cardine di questa evoluzione, dalle cause locali per emissioni nocive alle azioni collettive contro i giganti del fossile.
Il Codice Civile già prevede, all’art. 844, che fumi, polveri, odori e rumori non debbano superare la “normale tollerabilità”. Ma cosa significa in concreto? Le sentenze degli ultimi due anni ne hanno dato un’interpretazione più rigida a tutela dei cittadini. La Cassazione ha chiarito che la soglia di tollerabilità va valutata caso per caso, tenendo conto del contesto: in un’area residenziale anche emissioni inferiori ai limiti di legge possono essere intollerabili se disturbano la vita quotidiana. Ad esempio, la Cassazione civile ha stabilito che il rispetto dei valori limite di inquinamento acustico o atmosferico fissati dalla normativa non esclude la responsabilità civile per immissioni moleste: ciò che conta è l’impatto reale sulle persone coinvolte. Una serie di pronunce del 2024-2025 ha ribadito che il diritto al riposo, alla salute e al godimento della propria casa prevale sui parametri astratti: anche rumori “a norma” possono costituire illecito se turbano la vita familiare o il sonno delle persone.
Questa maggiore attenzione alle vittime si è tradotta in importanti condanne per le aziende inquinanti. Un caso emblematico viene dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, sent. n. 6351/2025, depositata il 10 marzo 2025, relativa all’annoso inquinamento nel quartiere Tamburi di Taranto a causa delle polveri minerali dello stabilimento siderurgico. In tale pronuncia la Cassazione ha confermato che l’azienda è tenuta a risarcire i danni ai residenti, indipendentemente dal fatto di operare con autorizzazioni amministrative. È stato affermato con forza un principio di diritto fondamentale: avere un permesso o una concessione non autorizza a nuocere ai terzi. L’autorizzazione ambientale (AIA) riguarda i rapporti con la Pubblica Amministrazione, ma non elimina l’obbligo di non ledere i diritti altrui. Pertanto, se un’attività autorizzata causa ugualmente polveri, rumori o odori che superano la soglia di tollerabilità nel vicinato, l’azienda risponde del danno ingiusto cagionato. In questo giudizio, la Suprema Corte ha riconosciuto ai cittadini del quartiere colpito un risarcimento sia per i danni patrimoniali (deprezzamento degli immobili, spese di pulizia straordinaria per la polvere nera depositata ovunque) sia per i danni non patrimoniali (stress, disturbi alla salute, sacrificio della qualità della vita). È importante sottolineare che i giudici hanno applicato un criterio probatorio equilibrato ma favorevole ai danneggiati: il nesso causale tra emissioni e danni può essere provato anche tramite presunzioni, purché gravi e precise, basate su dati scientifici e statistiche epidemiologiche. Non si richiede la certezza assoluta, ma una elevata probabilità (“più probabile che non”) che quelle polveri o quei fumi abbiano provocato i problemi lamentati. Questo approccio evita che, di fronte a fenomeni complessi come l’inquinamento diffuso, le vittime rimangano senza tutela per l’eccessiva difficoltà di prova. Come ha efficacemente riassunto la Cassazione, «sic utere tuo ut alienum non laedas» – usa la tua proprietà in modo da non danneggiare quella altrui – torna ad essere un principio vivo, che impone alle imprese di adottare tutte le cautele per non nuocere ai vicini, altrimenti pagheranno i relativi danni.
L’anno 2025 ha visto anche la conclusione di importanti processi per disastri ambientali, con esiti innovativi. Uno su tutti è la storica sentenza del 26 giugno 2025 della Corte d’Assise di Vicenza nel caso dello scandalo PFAS in Veneto. Dopo un lungo dibattimento, i dirigenti dell’azienda chimica ritenuta responsabile di aver contaminato le falde acquifere di una vasta area sono stati condannati penalmente; soprattutto, il giudice ha riconosciuto alle oltre 300 parti civili – cittadini, enti locali e associazioni – il diritto a un risarcimento danni. È una vittoria epocale: significa che le persone che per anni hanno bevuto acqua inquinata da sostanze tossiche (i PFAS, appunto) verranno indennizzate per i danni alla salute (ad esempio disturbi tiroidei, colesterolo alto, patologie collegabili all’esposizione prolungata) e per i danni morali subiti. Vengono ristorati anche gli enti pubblici, per le spese affrontate nell’emergenza sanitaria e ambientale. Questa pronuncia, pur emessa in sede penale, ha un enorme impatto civile: conferma che l’inquinamento ambientale di massa lede diritti fondamentali delle persone (la salute, la serenità familiare, il diritto ad acqua e aria pulite) e che tali lesioni devono essere risarcite integralmente. Non solo: il Tribunale ha stabilito che il risarcimento deve includere tutte le voci di danno: biologico, morale, esistenziale, patrimoniale. In altri termini, chi è costretto a convivere con un ambiente avvelenato va risarcito sia per le spese mediche e i mancati guadagni, sia per le sofferenze fisiche e psicologiche patite, sia per la compromissione delle normali abitudini di vita (pensiamo alla paura di usare l’acqua del rubinetto, alla necessità di rifornirsi altrove, all’angoscia per la salute dei figli).
Queste sentenze pilota fungono da apripista per altre comunità colpite da disastri ambientali. In Puglia, ad esempio, proseguono le cause civili dei residenti di Taranto contro il colosso siderurgico locale: già la Cassazione nel caso citato ha dato ragione ai cittadini, e altre class action ambientali potrebbero seguire lo stesso percorso. Un altro fronte è quello dei danni da emissioni odorigene (cattivi odori da impianti industriali o zootecnici): anche qui la giurisprudenza recente tende a riconoscere il diritto al risarcimento, qualificando il disagio olfattivo intenso e prolungato come danno non patrimoniale risarcibile. Il principio di fondo che emerge è chiaro: la legge sta dalla parte delle vittime dell’inquinamento, ribadendo che nessun interesse economico o produttivo può giustificare la compromissione significativa della salute e della dignità delle persone. I tribunali valutano con severità crescente il comportamento delle aziende: se un impianto causa immissioni intollerabili, non basta esibire autorizzazioni o sostenere di rispettare qualche soglia media – occorre prevenire e ridurre concretamente ogni impatto nocivo, altrimenti si pagano i danni. E questi danni, come si è visto, possono essere molto ingenti.
Accanto alle cause locali, il 2025 passerà alla storia anche per una pronuncia rivoluzionaria in tema di cambiamenti climatici. Per la prima volta in Italia, infatti, la Corte di Cassazione ha riconosciuto l’ammissibilità di un’azione legale volta a chiedere conto a uno storico emettitore di gas serra degli effetti della crisi climatica. Con l’ordinanza n. 20381/2025 emessa a Sezioni Unite il 21 luglio 2025, la Suprema Corte ha affrontato un caso promosso da associazioni ambientaliste e cittadini contro una grande compagnia petrolifera italiana, accusata di contribuire in modo significativo al riscaldamento globale con le proprie attività estrattive e produttive. La Cassazione non è (ovviamente) entrata nel merito della questione scientifica, ma ha segnato un punto fondamentale: ha stabilito che i giudici ordinari italiani hanno giurisdizione e competenza per giudicare questo tipo di cause, anche se riguardano danni diffusi e sovranazionali come quelli climatici. In pratica, ha dato via libera al “processo climatico” in Italia, cassando le decisioni precedenti che avevano dichiarato inammissibile il ricorso. Secondo la Corte, i cittadini hanno titolo per agire in giudizio a tutela di diritti inviolabili minacciati dalla crisi del clima (vita, salute, ambiente), e le imprese possono essere chiamate a rispondere in sede civile se con le loro emissioni massicce ed evitabili hanno violato il dovere del neminem laedere (non ledere altri).
Si tratta di un’ordinanza destinata a fare scuola. Le Sezioni Unite non hanno condannato direttamente l’azienda – il processo di merito deve ancora svolgersi – ma hanno fissato principi chiave: primo, che la crisi climatica può essere anche una questione di responsabilità giuridica, non solo politica; secondo, che chi contribuisce in modo rilevante alle emissioni serra può essere chiamato a rispondere dei danni specifici causati (ad esempio eventi meteorologici estremi, perdita di reddito in settori come l’agricoltura, impatti sulla salute pubblica) se si prova il nesso di causalità; terzo, che i giudici nazionali possono applicare le norme di diritto interno ed europeo (doveri di diligenza, principi UE sull’ambiente) per valutare queste condotte, senza attendere passivamente le iniziative del legislatore. È una svolta epocale: apre la strada anche in Italia a quelle cause di “giustizia climatica” già viste in altri paesi (famoso il caso Urgenda nei Paesi Bassi, o le cause contro il governo in Francia e Germania). In prospettiva, ciò significa che grandi gruppi industriali potrebbero trovarsi a pagare risarcimenti o ad essere costretti a ridurre le emissioni, se i tribunali accerteranno che la loro attività viola i diritti dei consociati. Siamo solo all’inizio, ma il messaggio lanciato dalla Cassazione è potente: la tutela dell’ambiente globale entra nelle aule giudiziarie, perché i diritti delle persone non si fermano di fronte alle sfide planetarie. Il clima stabile e la salute dell’ecosistema sono beni comuni essenziali e anche il diritto è un’arma per difenderli.
Questi sviluppi hanno conseguenze pratiche importanti. Per i cittadini e le comunità locali: cresce la possibilità di ottenere giustizia in situazioni un tempo considerate senza speranza. Se il tuo condominio sorge vicino a una fabbrica rumorosa o maleodorante, le nuove sentenze ti danno strumenti più forti per fare causa e far cessare le molestie o ottenere un indennizzo. Se vivi in un territorio avvelenato da rifiuti tossici o emissioni illegali, sai che esiste un precedente per chiedere conto ai responsabili e ottenere fondi per bonifiche e cure sanitarie. Anche di fronte a problemi enormi come il cambiamento climatico, i cittadini possono unirsi e portare in tribunale i grandi inquinatori, spingendoli a ridurre l’impatto ambientale o a risarcire i danni. In breve, la sensibilità ambientale della magistratura offre una leva in più alle battaglie civili: non solo proteste o appelli, ma azioni legali concrete, con avvocati e periti, per far valere diritti fondamentali e principi costituzionali (ricordiamo che l’art. 9 della Costituzione tutela ambiente, biodiversità ed ecosistemi, e l’art. 32 tutela la salute).
Dal lato opposto, per le imprese e gli enti pubblici questo trend è un avviso chiaro ad adottare un approccio di massima precauzione. Le aziende dovranno investire maggiormente in tecnologie pulite, filtri, insonorizzazioni e misure di mitigazione: il costo di una causa persa può essere molto alto, sia economicamente che in termini di reputazione. Chi gestisce impianti potenzialmente molesti dovrà rivedere le proprie prassi: non basta più “essere in regola con i limiti di legge”, occorre evitare in concreto di arrecare disturbo significativo. Sul fronte amministrativo, le autorità di controllo (ARPA, ASL, ecc.) potrebbero essere chiamate più spesso a fornire dati e pareri nei giudizi civili: il dialogo tra scienza e diritto diventerà sempre più cruciale. In definitiva, si va verso un modello in cui prevenire il danno ambientale conviene, perché altrimenti le conseguenze legali possono essere gravi.
Un aspetto interessante è anche l’evoluzione del concetto di danno ambientale. Oltre al danno alle persone (alla salute, alla proprietà privata), la legge già riconosce il danno ambientale pubblico, ossia la lesione all’ambiente in sé come patrimonio collettivo, la cui tutela spetta allo Stato (in sede penale o attraverso il Ministero dell’Ambiente). Con le nuove cause civili, però, emerge una sorta di danno ambientale “privato”: i singoli cittadini chiedono giustizia non solo per sé, ma anche per la degradazione del territorio in cui vivono. In un certo senso, la collettività locale si fa portavoce dell’ambiente ferito. È una frontiera nuova, dove diritto civile e interesse pubblico si incontrano.
La strada tracciata dalle pronunce del 2025 indica un futuro in cui ambiente e salute saranno sempre più centrali nei tribunali. L’Italia si allinea così a una tendenza internazionale: pensiamo alle sentenze straniere che impongono ai governi di rispettare gli obiettivi climatici, o ai maxi-risarcimenti ottenuti in alcuni casi di disastri ecologici. Da noi, c’era attesa per un salto di qualità che finalmente è arrivato. Certo, ogni vicenda dovrà essere provata e argomentata giuridicamente con rigore – non tutte le cause saranno vittoriose. Ma l’importante è che ora esiste un percorso legale percorribile, dove prima c’era scetticismo.
Come cittadini, significa poter affermare con forza il principio che la nostra salute e la qualità della vita valgono più dei profitti ottenuti violando le regole. Come imprese, significa cogliere l’urgenza di investire in sviluppo sostenibile e dialogare con le comunità, invece di minimizzare i problemi: l’era dell’industria “impunita” che esternalizza i costi sulla popolazione locale sta finendo. Le aule giudiziarie, da luogo di scontro, possono diventare strumento di cambiamento, inducendo comportamenti più virtuosi e rispetto per l’ambiente.
In conclusione, la recente giurisprudenza italiana ci consegna un messaggio di speranza e responsabilità: “Non ereditiamo la terra dai nostri avi, la prendiamo in prestito dai nostri figli.” Il vento sta cambiando anche nel diritto: chi subisce un torto ambientale può far valere le proprie ragioni e ottenere giustizia, mentre chi inquina sa che dovrà risponderne. Per usare un’efficace metafora cinematografica, potremmo dire che il verdetto è tratto: la tutela dell’ambiente è protagonista di questo nuovo film giudiziario, e tutti noi siamo chiamati a esserne attori consapevoli.
Redazione - Staff Studio Legale MP