
“Si dovrebbe lavorare per vivere, non vivere per lavorare” recita un noto adagio. Le Corti italiane sembrano averlo preso sul serio. Nel 2025, infatti, diverse sentenze della Cassazione civile (Sezione Lavoro) hanno rafforzato la tutela dei diritti personali dei dipendenti, ribadendo che l’attività lavorativa non può annientare la vita privata. Il messaggio è chiaro: le esigenze personali, familiari e di salute del lavoratore non possono essere calpestate dalle logiche aziendali. Vediamo come la giurisprudenza recente sta realizzando questo equilibrio.
Una prima svolta proviene dalla Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 18073/2025 (depositata il 3 luglio 2025). La Corte ha affrontato il caso di un dipendente in malattia durante un periodo di cassa integrazione guadagni (CIG) aziendale. Tradizionalmente, se un lavoratore supera un certo periodo di assenza per malattia (il cosiddetto periodo di comporto), l’azienda può licenziarlo. Ma cosa accade se l’assenza per malattia coincide con una sospensione dal lavoro per CIG? La Cassazione ha dato una risposta innovativa: la cassa integrazione prevale sulla malattia. In pratica, i giorni in cui il lavoratore è in CIG non vanno conteggiati ai fini del comporto, anche se in quello stesso periodo il dipendente era malato. Durante la CIG il rapporto di lavoro è già sospeso di per sé, quindi l’assenza per malattia in quei giorni non “consuma” il periodo massimo di conservazione del posto. Non solo: la sentenza chiarisce che, in costanza di CIG, il lavoratore non è tenuto a comunicare lo stato di malattia né a presentare certificati medici, e non è soggetto alle visite fiscali di controllo normalmente previste in caso di malattia. Si tratta di una decisione di grande buon senso: il dipendente non può essere penalizzato due volte. Se l’azienda lo ha già messo in cassa integrazione (magari per una crisi o riorganizzazione), non è giusto che quei giorni pesino anche nel conteggio delle sue assenze per malattia. Questa pronuncia tutela il diritto alla salute del lavoratore, evitando il rischio di licenziamenti per superamento del comporto viziati da sommatorie indebite. Le imprese dovranno adeguare le proprie prassi: le assenze per malattia concomitanti alla CIG non potranno più essere usate come pretesto per lasciare a casa il dipendente. In sostanza, la Cassazione ricorda che il lavoratore è prima di tutto una persona con bisogni e vulnerabilità, e il sistema giuridico deve garantire che il diritto alla cura non si ritorca contro chi è già in difficoltà.
Un secondo fondamentale tassello a tutela della vita privata riguarda la libertà di formarsi una famiglia. La Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 24245/2025 (31 agosto 2025) ha affrontato il caso di una lavoratrice part-time licenziata mentre si sottoponeva a ripetuti trattamenti di procreazione medicalmente assistita (PMA) per avere un figlio. La dipendente, impiegata come segretaria, aveva informato il datore di lavoro del suo percorso di fecondazione assistita. Poco dopo, l’azienda le intimava il licenziamento per supposte esigenze organizzative. I giudici, però, hanno letto fra le righe: quel recesso celava una finalità discriminatoria, legata proprio alla scelta della donna di diventare madre attraverso la PMA. La Cassazione, con un’ordinanza esemplare, ha confermato la nullità del licenziamento della dipendente, ritenendolo discriminatorio ai sensi dell’art. 37 della Costituzione e del Codice delle Pari Opportunità. Pur non essendo incinta al momento del licenziamento, la lavoratrice era coinvolta in un percorso tutelato dalla legge 40/2004 sulla fecondazione assistita, espressione della sua sfera intima e del diritto alla maternità. Colpire una dipendente per questo motivo significa violare il principio di parità e la tutela della maternità, estesa dalla giurisprudenza anche alle fasi preparatorie della gravidanza. Questa decisione fissa un principio di civiltà giuridica: non puoi essere licenziata perché vuoi un figlio. In altre parole, il desiderio di maternità – qualunque sia la strada scelta per realizzarlo – non può diventare un handicap sul lavoro. Se il datore di lavoro adotta provvedimenti punitivi o espulsivi in reazione a tale scelta, incorre in un licenziamento nullo, come per le discriminazioni dirette basate sul genere. La sentenza in esame equipara di fatto la PMA a una condizione meritevole di protezione, analogamente alla gravidanza, prevenendo abusi sottili e ritorsioni camuffate. Per i datori di lavoro, il messaggio è chiaro: ogni provvedimento che incida negativamente su una lavoratrice a causa della sua aspirazione a diventare madre sarà passato al setaccio e potenzialmente annullato. D’altro canto, per le lavoratrici questa pronuncia rappresenta una garanzia in più: possono intraprendere percorsi di fertilità assistita senza il timore di perdere il posto, forti di una tutela giurisprudenziale che riconosce la dignità di tale scelta personale. Una società moderna non può chiedere alle donne di scegliere tra il lavoro e la famiglia – e la Cassazione del 2025 lo ribadisce con forza.
Il terzo ambito cruciale riguarda la privacy del lavoratore e i limiti dei controlli aziendali. Negli ultimi anni la tecnologia ha reso possibili forme invasive di sorveglianza: telecamere, software di monitoraggio, chat aziendali controllate. La legge italiana, in particolare l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, consente i controlli a distanza solo entro precisi limiti e garanzie, rafforzati dopo il Jobs Act del 2015 (che ha richiesto accordi sindacali o autorizzazione per installare impianti audiovisivi). Ma una volta installati legittimamente, i filmati possono essere usati per scopi disciplinari? La Cass. civ., Sez. Lav., sent. n. 30822/2025 (24 novembre 2025) ha fatto luce su questo punto controverso. La vicenda riguardava un dipendente sorpreso dalle videocamere interne mentre sottraeva denaro dalla cassa. L’azienda lo aveva licenziato per giusta causa, ma la contestazione disciplinare si basava unicamente sui filmati delle telecamere. Il contratto collettivo applicabile, però, prevedeva espressamente il divieto di utilizzare le riprese per fini disciplinari. La Corte d’Appello aveva annullato il licenziamento ritenendo violata quella clausola di tutela, e il caso è giunto in Cassazione. La Suprema Corte ha confermato l’orientamento: in generale, le immagini raccolte lecitamente con impianti di videosorveglianza possono essere utilizzate per sanzionare i dipendenti, purché il lavoratore sia stato adeguatamente informato della presenza delle telecamere e siano rispettate le normative privacy. Tuttavia – ed è il punto nodale – se il contratto collettivo nazionale (CCNL) contiene una clausola più favorevole al lavoratore che vieta l’uso dei filmati a fini disciplinari, tale clausola prevale. In altri termini, la legge statale pone un livello minimo di garanzie, ma le parti sociali tramite il CCNL possono alzare l’asticella a tutela dei dipendenti; e quando lo fanno, l’azienda deve rispettare il patto. Nel caso di specie, dunque, il licenziamento è risultato illegittimo: il datore non poteva utilizzare quelle prove video contro il dipendente, perché il CCNL del settore lo proibiva. Questa sentenza è significativa perché compone due esigenze: da un lato riconosce il potere di controllo dell’azienda (nel rispetto delle regole) e la possibilità di reprimere condotte illecite; dall’altro sancisce che la dignità e la riservatezza del lavoratore rimangono principi cardine, sui quali i contratti collettivi possono incidere ampliando le tutele. Per i lavoratori, sapere di non poter essere spiati e puniti oltre quanto stabilito dalle intese sindacali è fonte di maggiore serenità. Per le imprese, si tratta di un promemoria: compliance non solo con le leggi statali, ma anche con le regole pattizie del proprio settore. In definitiva, la Cassazione 2025 sul tema dei controlli chiarisce che la ricerca della disciplina non può tradursi in una sorveglianza libera da vincoli: il rispetto della persona del lavoratore viene prima di tutto, anche quando si tratta di sanzionare comportamenti scorretti.
Le vicende esaminate dimostrano un filo rosso: il diritto del lavoro italiano è in evoluzione verso un bilanciamento più equo tra le esigenze dell’azienda e i diritti fondamentali del dipendente. La salute tutelata oltre la burocrazia dei conteggi, la genitorialità protetta da ingerenze punitive, la privacy salvaguardata nei confronti di un controllo tecnologico sempre più pervasivo – sono tutti segnali di un cambio di paradigma. Si riscopre la centralità dell’individuo nel rapporto di lavoro: il lavoratore non è un semplice mezzo di produzione, ma un essere umano portatore di valori, aspirazioni e fragilità che l’ordinamento giuridico deve considerare. Del resto, come affermato ironicamente dallo scrittore Oscar Wilde, «Il lavoro è il rifugio di coloro che non hanno nulla di meglio da fare.» Questo monito letterario invita a riflettere sull’importanza di non sacrificare tutto sull’altare della produttività. Le nuove sentenze paiono recepire questo spirito: riconoscono che oltre l’orario di lavoro c’è una vita degna di tutela, e che un buon diritto del lavoro deve garantire “l’umanità” del lavoro. In un’epoca in cui flessibilità e performance sembrano dominare, la giurisprudenza del 2025 ci ricorda che dietro ogni scrivania c’è una persona, e che una vita bilanciata e rispettata è il presupposto di una vera efficienza sul lavoro.
In conclusione, il panorama delineato dalle pronunce dell’ultimo anno offre ai lavoratori nuove armi di tutela. Chi si trovi ad affrontare un licenziamento dubbio, situazioni di discriminazione o pressioni indebite sull’ambito personale non è più solo: può far valere questi importanti precedenti in sede legale. Humanum est lavorare, sed non vivendum est ut laboramus – potremmo azzardare – lavorare è umano, ma non si deve vivere solo per lavorare.
Redazione - Staff Studio Legale MP