
Una prima svolta è arrivata sul tema dei permessi lavorativi retribuiti previsti dalla Legge 104/1992. La Cassazione civile, Sez. Lavoro, con la sentenza n. 10012/2025 (16 aprile 2025), ha confermato che un lavoratore disabile con contratto part-time ha diritto allo stesso numero di giorni di permesso mensile dei colleghi full-time. Nel caso esaminato, un dipendente invalidO/A al 100% cui l’azienda sanitaria concedeva solo 1 giorno di permesso al mese (anziché i 3 giorni previsti dall’art. 33, comma 3, L.104/1992) è stato considerato vittima di discriminazione. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del datore di lavoro, sancendo il diritto alla piena fruizione dei tre giorni di permesso mensili anche per i part-time. Si tratta di un chiaro richiamo al principio di parità di trattamento: le misure di conciliazione previste dalla legge non possono essere ridotte in base all’orario, altrimenti si creerebbe un ingiustificato svantaggio per il lavoratore con disabilità. Questa pronuncia rafforza la tutela sostanziale, prevedendo anche il risarcimento del danno in favore del dipendente per i permessi negati in passato. Come insegna il diritto antidiscriminatorio, occorre garantire uguali opportunità a tutti i lavoratori in situazione di handicap, tenendo conto dei loro bisogni peculiari.
Un altro ambito cruciale è quello del licenziamento di un lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni per sopravvenuta disabilità. Su questo fronte, la Corte di Cassazione ha fornito indicazioni stringenti con la sentenza n. 24994/2025 (11 settembre 2025). La Cassazione ha stabilito che il licenziamento per inidoneità sopravvenuta è legittimo solo se il datore di lavoro ha prima esperito tutti i tentativi possibili di ricollocare il dipendente in altre mansioni compatibili. In pratica, l’azienda deve dimostrare di aver effettuato una seria valutazione organizzativa: verificare se esistono posizioni alternative, anche mediante adattamenti del ruolo o riduzione dell’orario, in cui il lavoratore disabile possa essere utilmente impiegato. Tale analisi deve essere concreta e documentata (coinvolgendo il medico competente e aggiornando il Documento di Valutazione dei Rischi) e non una mera formalità. Solo qualora risulti impossibile trovare soluzioni ragionevoli, il recesso può considerarsi giustificato. Questo orientamento recepisce il principio secondo cui l’assenza di accomodamenti costituisce discriminazione indiretta. Va precisato che non si impongono oneri illimitati al datore – nemo ad impossibilia tenetur – ma certamente un adeguato sforzo per adattare l’organizzazione alle esigenze della persona con disabilità. In sintesi, prima di procedere al licenziamento, l’azienda ha l’obbligo di mettere in atto ogni accomodamento ragionevole (ad esempio modifica delle mansioni, trasferimento ad altra unità produttiva, adibizione a part-time) che permetta al lavoratore di continuare a contribuire in base alle proprie capacità residue. Questa maggiore attenzione della giurisprudenza responsabilizza i datori di lavoro, chiamati ad adottare misure proattive per un ambiente di lavoro inclusivo.
Una questione dibattuta è quella del periodo di comporto, ossia il limite massimo di assenze per malattia superato il quale il datore può licenziare. La giurisprudenza italiana recente aveva inizialmente assunto un orientamento molto protettivo: pronunce del 2023-2024 avevano ritenuto che applicare indistintamente lo stesso periodo di comporto a lavoratori disabili e normodotati costituisse discriminazione indiretta, poiché i primi possono avere necessità di cure più frequenti. Tuttavia, una fondamentale sentenza della Corte di Giustizia UE (11 settembre 2025, causa C-5/24) ha ridimensionato questa impostazione, fornendo un criterio più equilibrato. La Corte europea ha chiarito che una normativa nazionale che prevede un comporto uguale per tutti non è di per sé illegittima né automaticamente discriminatoria, a patto però che il datore di lavoro adempia all’obbligo di adottare misure di accomodamento ragionevole per il dipendente disabile. In altre parole, l’azienda deve valutare caso per caso se sia possibile concedere assenze supplementari o altre soluzioni (es. cambio mansione temporaneo, telelavoro) per evitare il licenziamento, purché ciò non comporti un onere sproporzionato. Spetta poi al giudice nazionale verificare, nel singolo caso, se il datore abbia effettivamente messo in atto tutti gli accomodamenti possibili prima di procedere al recesso. Questa decisione ha spostato il baricentro dalla regola astratta alla concreta gestione pratica: non basta più invocare la nullità del licenziamento solo perché è stato applicato il comporto standard, ma occorre dimostrare che il datore non ha fornito adattamenti ragionevoli. Ne deriva che imprese e amministrazioni devono mostrarsi più flessibili e attente nel gestire le assenze per malattia di lavoratori con disabilità, documentando le soluzioni adottate e motivando accuratamente l’eventuale decisione di interrompere il rapporto. Si delinea così un approccio che bilancia il diritto alla parità di trattamento del lavoratore fragile con le esigenze organizzative dell’azienda, chiamando il giudice a un ruolo centrale di valutazione dell’equità nel caso concreto.
Il principio di inclusione si estende anche a tutela di chi assiste le persone con disabilità all’interno della famiglia. Una recente pronuncia della Corte di Giustizia UE (11 settembre 2025, causa C-38/24) ha affermato in modo esplicito che il divieto di discriminazione indiretta per motivi di disabilità copre anche i lavoratori caregiver, ossia coloro che, pur non essendo essi stessi disabili, assistono un familiare con handicap. Si parla in questi casi di discriminazione per associazione: un lavoratore potrebbe subire trattamenti sfavorevoli (ad esempio, un trasferimento punitivo o un diniego immotivato di flessibilità oraria) a causa degli impegni di cura verso la persona disabile. La Corte UE ha richiamato principi già impliciti nella Direttiva 2000/78/CE e nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, sancendo che il datore di lavoro è tenuto a valutare con attenzione le richieste di flessibilità o accomodamento provenienti da un dipendente caregiver. Ciò può tradursi, ad esempio, nell’accordare orari di lavoro compatibili con le esigenze di assistenza, turni agevolati, smart working o altre misure organizzative. Un rifiuto delle agevolazioni, per essere legittimo, deve basarsi su ragioni oggettive e dimostrare che concederle comporterebbe un onere eccessivo per l’organizzazione. Questa evoluzione rafforza la protezione indiretta del diritto alla cura familiare: il lavoratore non deve trovarsi costretto a scegliere tra il mantenimento del posto di lavoro e l’assistenza al congiunto in difficoltà. Anche in Italia si va consolidando questa sensibilità, e le aziende sono invitate ad adottare policy che riconoscano il ruolo dei caregiver (si pensi ai congedi e permessi già previsti dalla legge, come il congedo straordinario biennale retribuito ex art. 42 D.lgs.151/2001) evitando pratiche che possano penalizzarli. Il messaggio complessivo è che un ambiente di lavoro realmente inclusivo deve tener conto non solo della condizione individuale del lavoratore, ma anche delle responsabilità familiari legate alla disabilità.
L’impegno verso l’inclusione si manifesta con forza anche nel contesto scolastico, dove da anni vige il principio dell’integrazione degli alunni con disabilità nelle classi comuni. Nel 2025 la giustizia amministrativa ha ribadito con fermezza il diritto degli studenti disabili ad un sostegno adeguato. In particolare, il T.A.R. Campania (Napoli, Sez. II) con la sentenza n. 3324/2025 depositata il 22 aprile 2025 ha nuovamente condannato l’assegnazione di un numero di ore di sostegno inferiore a quello indicato nel Piano Educativo Individualizzato (PEI). Nel caso concreto, a un alunno con grave disabilità erano state concesse solo 12,5 ore settimanali di insegnante di sostegno, a fronte delle 40 ore di frequenza scolastica. Il tribunale ha dichiarato illegittimo il provvedimento dell’amministrazione scolastica, ordinando di garantire tutte le ore di sostegno previste dal PEI elaborato dal Gruppo di Lavoro competente. Questa pronuncia si inserisce in un orientamento consolidato per cui qualsiasi taglio arbitrario delle ore di sostegno, motivato solo da carenze di organico o risorse, viola il diritto allo studio del disabile ed è contrario ai principi costituzionali di uguaglianza e all’art. 34 Cost. (diritto all’istruzione). Da segnalare che il T.A.R., nel motivare la decisione, ha richiamato anche le innovazioni normative introdotte dal D.Lgs. 62/2024 (attuativo della legge delega 227/2021), che ha rafforzato il concetto di “persona con disabilità avente diritto ai sostegni” modificando la Legge 104/1992. In sostanza, la legge oggi correla in modo ancora più vincolante la condizione di disabilità certificata con l’obbligo per le istituzioni di fornire tutti i supporti necessari. Ne discende che la scuola deve attivarsi per redigere tempestivamente il PEI e assicurare le risorse di sostegno indicate, senza poter opporre mere ragioni di bilancio. Purtroppo, come evidenziato dallo stesso T.A.R., spesso solo chi ricorre al giudice ottiene il riconoscimento integrale delle ore dovute: ciò sottolinea l’importanza di far valere i propri diritti. Questa evoluzione giurisprudenziale, unita alla riforma normativa in corso, mira a rendere effettiva l’inclusione scolastica, affinché “la piena realizzazione del diritto all’educazione e all’integrazione dell’alunno con disabilità” (come recita la sentenza) non rimanga un principio sulla carta ma diventi realtà quotidiana in ogni istituto.
Le tendenze sopra descritte delineano un panorama giuridico più attento alle esigenze delle persone con disabilità, sia nell’ambito lavorativo che in quello sociale ed educativo. Le nuove norme – frutto della Riforma della disabilità avviata con la legge delega 227/2021 e i decreti attuativi del 2023-2024 – e le pronunce dei giudici stanno convergendo verso lo stesso obiettivo: rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione dei cittadini disabili alla vita economica e sociale, in condizioni di uguaglianza. È un processo in continua evoluzione, che richiede uno sforzo congiunto da parte delle istituzioni, delle aziende e della collettività. Come ha efficacemente osservato il giornalista Candido Cannavò, “Penso che talvolta i veri limiti esistano in chi ci guarda”. Questa citazione ci ricorda che spesso le barriere più difficili da superare sono quelle culturali: pregiudizi, disinformazione o semplice mancanza di sensibilità possono relegare ai margini chi è “diverso”. Al contrario, adottare uno sguardo nuovo – che veda nella disabilità una differenza da accogliere e non un difetto da compatire – è la chiave per costruire ambienti davvero inclusivi, dove ciascuno possa dare il meglio di sé.
In conclusione, il diritto sta fornendo strumenti sempre più efficaci per garantire inclusione e non discriminazione. Resta fondamentale che le persone facciano valere queste tutele: conoscere i propri diritti è il primo passo per ottenerne il rispetto. Allo stesso tempo, i datori di lavoro e le pubbliche amministrazioni hanno l’opportunità di adeguarsi a questi principi, trasformando gli obblighi di legge in occasioni per valorizzare il potenziale di ogni individuo, a beneficio di tutta la comunità.
Redazione - Staff Studio Legale MP