
Essere dimessi dall’ospedale prima del tempo necessario può esporre il paziente a gravi pericoli. Un paziente ancora clinicamente instabile, se mandato a casa anzitempo, potrebbe andare incontro a complicanze, aggravamento della malattia o addirittura al decesso. Si parla in questi casi di dimissioni ospedaliere premature o dimissioni affrettate, una forma di malasanità meno evidente dell’errore chirurgico clamoroso, ma comunque insidiosa. Gli ospedali, soprattutto nei reparti sovraffollati, talvolta anticipano le dimissioni per liberare posti letto o ridurre i costi. Tuttavia, ogni medico ha il dovere deontologico e giuridico di mettere al primo posto la salute del paziente – come recita un antico adagio, salus aegroti suprema lex (il bene del malato è la legge suprema) – e di dimettere il paziente solo quando è in condizioni di sicurezza.
La decisione di dimettere un paziente dall’ospedale non può mai essere automatica o basata solo su protocolli standard. Ogni caso clinico è diverso e il medico deve valutare attentamente le condizioni specifiche, anteponendo sempre la tutela della salute del paziente a qualsiasi altra esigenza organizzativa. In altre parole, primum non nocere: prima di tutto, non causare un danno con una dimissione imprudente.
Ecco alcuni principi fondamentali che il personale sanitario deve rispettare prima di autorizzare la dimissione:
Stabilità clinica: verificare che il paziente sia davvero guarito o comunque stabilizzato al punto da non richiedere più cure ospedaliere. La valutazione deve basarsi sullo stato clinico effettivo, non su pressioni di reparto.
Accertamenti completi: utilizzare tutti gli esami diagnostici e monitoraggi necessari per confermare che non vi siano complicanze in atto. Non si dimette un paziente senza aver escluso rischi imminenti con gli opportuni controlli.
Giudizio individuale, non solo protocolli: le linee guida ospedaliere e i protocolli sono un riferimento utile, ma non possono sostituire il giudizio clinico. Il medico è personalmente responsabile delle proprie decisioni e non può giustificarsi dicendo di aver “seguito il protocollo” se questo comporta negligenza nel caso concreto. La Cassazione penale ha chiarito che attenersi pedissequamente alle linee guida non esonera dalla responsabilità, se la situazione richiedeva maggiore cautela (Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 41173/2024).
Niente dimissioni “per economia”: considerazioni di bilancio o la necessità di liberare letti non possono prevalere sul diritto alla salute. Dimettere un malato per far posto ad un altro o per ridurre i costi, senza garantirne la sicurezza, è un atto di grave imprudenza. Ogni medico deve pensare solo alla salute del paziente affidato, senza farsi condizionare da pressioni amministrative.
Continuità assistenziale: assicurarsi che al momento di lasciare l’ospedale il paziente abbia un adeguato supporto. Se servono ulteriori cure, terapie domiciliari, riabilitazione o una struttura intermedia (RSA, hospice), l’ospedale deve attivare queste soluzioni prima della dimissione. Dimettere una persona non autosufficiente o ancora bisognosa di assistenza, senza predisporre alternative, significa esporla a rischi ingiustificati.
Una dimissione ospedaliera prematura, se causa un danno al paziente, può comportare responsabilità sia civili sia penali. Civilmente, l’ospedale può rispondere per inadempimento contrattuale verso il paziente (non aver fornito cure diligenti fino a guarigione stabilizzata), mentre il medico può rispondere per colpa extracontrattuale (negligenza professionale). In tal caso il paziente ha diritto a un risarcimento dei danni subiti: danno biologico per il peggioramento della salute, danno morale per le sofferenze patite e danni economici (spese mediche aggiuntive, perdita di reddito, ecc.).
Nei casi più gravi, quando dalla dimissione affrettata deriva un aggravamento gravissimo o il decesso, scatta anche la responsabilità penale a carico dei sanitari coinvolti. Si può configurare il reato di lesioni colpose o omicidio colposo se viene accertato che il personale ha agito con imprudenza o negligenza dimettendo il paziente in condizioni critiche. Ad esempio, in un caso di infarto non adeguatamente monitorato al Pronto Soccorso, con successivo decesso a casa dopo poche ore, la Corte di Cassazione ha confermato la responsabilità penale del medico per non aver rispettato le linee guida che imponevano maggiore osservazione (Cass. pen., Sez. IV, n. 41173/2024). I giudici hanno ribadito che il medico deve sempre agire con prudenza e che, in presenza di segnali di allarme, “dimettere troppo presto” può costituire colpa grave.
Nel valutare legalmente una dimissione prematura, è centrale il concetto di nesso causale: occorre dimostrare che il danno subito dal paziente (un aggravamento, una complicanza o la morte) è conseguenza diretta della dimissione anticipata. In termini semplici, bisogna chiedersi: se il paziente fosse rimasto in ospedale sotto cure adeguate, l’evento negativo si sarebbe probabilmente evitato?
La giurisprudenza applica in queste situazioni la regola del “più probabile che non”. Se, secondo le prove medico-legali, è più probabile (>50%) che una prosecuzione della degenza ospedaliera avrebbe impedito il danno, allora il medico e la struttura sono ritenuti responsabili. Viceversa, se il paziente purtroppo non avrebbe avuto concrete chance di evitare l’esito negativo anche restando ricoverato, non vi è responsabilità risarcitoria.
Ad esempio, la Cassazione ha affrontato il caso di una paziente deceduta il cui destino clinico non sarebbe cambiato: le consulenze tecniche avevano concluso che, anche con cure perfette, le probabilità di salvezza erano inferiori al 50%. In tale situazione la domanda di risarcimento è stata rigettata, perché mancava la prova che l’errore dei sanitari fosse causa del decesso (Cass. civ., Sez. III, sent. n. 2863/2025). In altre parole, pur riconoscendo un comportamento negligente, se quel comportamento non ha alterato il destino clinico del paziente (nesso causale mancante), non si può condannare il medico al risarcimento.
Di converso, in un’altra vicenda è emerso chiaramente che la dimissione impropria aveva privato il malato di concrete possibilità di salvezza. Un paziente colpito da dissezione aortica era stato trattenuto per ore in osservazione con diagnosi errata, invece di essere trasferito d’urgenza in cardiochirurgia: è deceduto in breve tempo. In quel caso la Suprema Corte ha censurato la decisione dei giudici di merito che avevano escluso la colpa, sottolineando che vi era un’alta probabilità di sopravvivenza se il paziente fosse stato operato tempestivamente (circa il 75% di chance di salvezza); dunque l’omessa ospedalizzazione appropriata ha causato la perdita di una significativa chance di sopravvivenza ed è risarcibile (Cass. civ., Sez. III, ord. n. 2122/2025).
Se la dimissione affrettata provoca un aggravamento dello stato di salute, il paziente ha diritto al risarcimento del danno biologico (la lesione all’integrità psicofisica valutata in punti percentuali) e degli ulteriori danni non patrimoniali sofferti, come il danno morale (dolore, paura, stress causati dall’episodio) ed eventuali ripercussioni sulla vita quotidiana (danno esistenziale). In presenza di conseguenze permanenti (invalidità sopraggiunte per il ritardo nelle cure), il risarcimento dovrà tenere conto anche delle maggiori spese mediche future e delle perdite di reddito o opportunità lavorative causate dalla nuova disabilità.
Nei tragici casi in cui il paziente muore a causa della dimissione prematura (ad esempio, mancata sorveglianza di complicanze post-operatorie con esito fatale), i familiari stretti – coniuge, figli, genitori – possono agire per ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale. La legge riconosce infatti che la morte di un congiunto per colpa medica causa nei familiari un grave sconvolgimento emotivo e un vuoto negli affetti. La Cassazione ha chiarito che la perdita di una vita è un danno risarcibile per i prossimi congiunti sia che il decesso avvenga dopo la nascita sia prima (come nel caso di un feto mai nato): il dolore dei genitori per la morte di un bambino non ancora venuto al mondo è giuridicamente pari a quello per la perdita di un figlio in vita (Cass. civ., Sez. III, ord. n. 26826/2025). Non è dunque ammissibile liquidare in modo simbolico il danno ai genitori con la scusa che “potranno avere altri figli”: ogni vita è unica e la sua perdita comporta un sconvolgimento esistenziale risarcibile.
Va precisato che i genitori o eredi non possono invece chiedere un risarcimento in nome e per conto del deceduto per la “perdita della vita” in sé (il cosiddetto danno tanatologico), perché la vita cessata non è considerata un diritto trasmissibile. Ciò che viene risarcito è dunque il dolore e la privazione subiti dai familiari per la perdita del proprio caro.
Cosa può fare concretamente un paziente (o i suoi familiari) di fronte a una dimissione che ritiene inappropriata? In primo luogo, ha diritto a ricevere spiegazioni chiare dai medici sui motivi della dimissione e sul proprio quadro clinico. È importante chiedere e ottenere copia della cartella clinica aggiornata e di tutti gli esami eseguiti durante il ricovero: questa documentazione sarà fondamentale sia per valutazioni mediche indipendenti sia in vista di un’eventuale azione legale.
Se vi sono seri dubbi sulla correttezza della dimissione, il paziente può manifestare per iscritto il proprio dissenso. È consigliabile inviare una lettera formale (meglio tramite PEC o raccomandata A/R) alla Direzione Sanitaria dell’ospedale, contestando la decisione di dimissione e chiedendo espressamente una rivalutazione del caso o il trasferimento in un reparto più adeguato. Mettere per iscritto le proprie perplessità crea un precedente documentale importante.
In situazioni critiche, si può richiedere il parere di un medico legale indipendente: questi potrà valutare se la decisione di dimettere è stata conforme alle buone pratiche cliniche o se vi sono profili di colpa. Il medico legale può anche quantificare i danni subiti dal paziente in caso di aggravamento (valutazione del danno biologico, ecc.).
Infine, è fondamentale rivolgersi tempestivamente a un avvocato esperto in responsabilità medica per valutare un’azione di risarcimento. L’avvocato potrà aiutare a raccogliere le prove (cartella clinica, consulenze tecniche) e a promuovere le istanze giuridiche più opportune – dalla richiesta di risarcimento danni in sede civile all’eventuale costituzione di parte civile in un processo penale, qualora sia pendente un procedimento per lesioni o omicidio colposo a carico dei medici. In ogni caso, muoversi per tempo è importante: la legge prevede termini di prescrizione (in genere 10 anni per l’azione civile contrattuale verso l’ospedale, 5 anni per l’azione extracontrattuale verso il medico, e tempi anche più brevi in ambito penale se non vi è un procedimento in corso).
“I medici hanno questa buona fortuna: la terra copre i loro errori.” Questo amaro aforisma attribuito a Voltaire ricorda quanto gravi possano essere le conseguenze degli errori sanitari. Se tu o un tuo familiare siete stati vittime di una dimissione frettolosa che ha causato un danno, è essenziale far valere i propri diritti.
Le dimissioni ospedaliere anticipate rappresentano una zona d’ombra della malasanità, in cui il paziente può sentirsi abbandonato e privo di cure nel momento del bisogno. Tuttavia, il nostro ordinamento offre strumenti per ottenere giustizia e riparazione dei torti subiti. Ogni caso va valutato con attenzione tecnico-medica e legale, ma il messaggio è chiaro: se la cura viene interrotta prima del dovuto e ciò provoca un danno, il paziente ha la possibilità di agire e ottenere un equo ristoro.
Redazione - Staff Studio Legale MP