
La legge tutela chi subisce danni da vaccino con un indennizzo pubblico e, in alcuni casi, con il risarcimento completo in sede civile: le ultime sentenze chiariscono i diritti dei danneggiati.
Chi ha subìto un danno da vaccino ha diritto a un indennizzo pubblico e può ottenere, in alcuni casi, anche il risarcimento completo in sede civile
"La salute non analizza se stessa e neppure si guarda allo specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi." Con queste parole il romanziere Italo Svevo sottolineava come spesso diamo per scontata la salute finché non la perdiamo. Nel contesto delle vaccinazioni, questo assume un significato particolare: i vaccini proteggono la collettività, ma in rarissimi casi possono causare gravi effetti avversi a singoli individui. Il diritto si è dunque interrogato su come non lasciare sole queste persone sfortunate, bilanciando il bene comune con la giustizia verso il singolo. Da un lato c’è l’interesse pubblico della profilassi sanitaria – salus populi suprema lex, la salute del popolo è la legge suprema –; dall’altro c’è il diritto di chi, adempiendo a un dovere civico, riporta un danno alla salute. Negli ultimi anni l’ordinamento italiano ha rafforzato le tutele per questi casi: oltre a prevedere un indennizzo statale “automatico” per i danneggiati, ha aperto la strada anche a risarcimenti integrali in sede civile. Vediamo in dettaglio quali strumenti di tutela esistono oggi per chi ha subìto complicanze da vaccino e quali importanti pronunce dei giudici ne hanno esteso la portata.
Sin dal 1992, in Italia è riconosciuto un indennizzo pubblico a chi riporti lesioni o infermità permanenti a causa di vaccinazioni obbligatorie. La legge n. 210/1992 prevede infatti un assegno vitalizio a carico dello Stato (oltre a un’eventuale somma una tantum) per compensare, in spirito di solidarietà, chi ha sofferto un danno grave “per il bene comune”. Questo indennizzo ha natura assistenziale: viene concesso indipendentemente da colpe o responsabilità di qualcuno, proprio perché il vaccino viene somministrato nell’interesse collettivo. In altre parole, chi subisce un sacrificio individuale per proteggere la comunità non viene abbandonato: primum non nocere è il principio della medicina, ma quando un trattamento necessario causa un danno, la collettività deve farsene carico.
L’indennizzo consiste in un assegno bimestrale il cui importo dipende dal grado di invalidità permanente riconosciuta (uguale per tutti i casi con lo stesso grado, salvo piccole rivalutazioni ISTAT annuali). Non copre però tutte le voci di danno: ad esempio non risarcisce interamente il danno morale o il lucro cessante (perdite di reddito). Proprio perché forfettario e limitato, l’indennizzo non esclude che il danneggiato possa poi agire in giudizio per ottenere un ulteriore risarcimento civile dai responsabili. La legge anzi prevede espressamente la cumulabilità entro certi limiti: si può accettare l’indennizzo senza rinunciare alla causa civile, fermo restando che quanto ricevuto dallo Stato verrà sottratto dal risarcimento per evitare duplicazioni sugli stessi aspetti. Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito criteri importanti: ad esempio Cass. civ., ord. n. 4415/2024 (19 febbraio 2024) ha stabilito che l’indennizzo ex lege 210/92 va detratto solo dal risarcimento per l’invalidità permanente (che è proprio l’oggetto dell’indennizzo pubblico), ma non da quello per l’invalidità temporanea o altri danni diversi. Ancora, Cass. civ., ord. n. 15963/2025 ha precisato che se il danneggiato non ha effettivamente ottenuto alcun indennizzo – ad esempio perché pur aventone diritto non lo ha richiesto in tempo ed è decaduto – allora nulla può essere detratto dal risarcimento: non si può penalizzare la vittima per non aver usufruito di un beneficio amministrativo, soprattutto se la mancata domanda è dipesa dal fatto che all’epoca ignorava i propri diritti. In sostanza, oggi è assodato che l’indennizzo statale rappresenta un livello minimo di tutela sempre garantito, e che l’eventuale risarcimento civilistico si aggiunge per coprire integralmente i danni, senza però duplicare le somme già indennizzate.
In origine la legge del 1992 limitava il diritto all’indennizzo ai soli vaccini obbligatori per legge o per ordinanza sanitaria (ad esempio antipolio, antitetanica, ecc.). Ciò escludeva dalla tutela gli eventuali danni causati da vaccinazioni semplicemente raccomandate dallo Stato, creando un’ingiusta disparità. Nel tempo però questa distinzione è stata superata grazie a interventi sia normativi che giudiziari. Già la Corte Costituzionale, sent. n. 107/2012 e la sent. n. 268/2017, aveva dichiarato illegittimo negare l’indennizzo a chi si era vaccinato nell’interesse pubblico anche senza obbligo (rispettivamente nel caso del vaccino trivalente MPR contro morbillo-parotite-rosolia e del vaccino antinfluenzale). Successivamente, nel 2022 – anche alla luce della pandemia Covid-19 – il legislatore è intervenuto: il D.L. 25/2022, convertito in legge, ha incluso espressamente le reazioni avverse al vaccino anti-Covid-19 tra i casi indennizzabili ai sensi della legge 210/92, pur trattandosi di vaccino non obbligatorio per la popolazione generale (l’obbligo Covid ha riguardato solo categorie particolari, come il personale sanitario e per un periodo gli over-50). A fugare ogni dubbio residuo ci ha pensato la Cassazione, Sez. Lav., ord. n. 16875/2024 (19 giugno 2024): essa ha sancito in modo chiaro che anche le vaccinazioni non obbligatorie danno diritto all’indennizzo statale. In quel caso, la Suprema Corte ha confermato l’obbligo di indennizzare un minore danneggiato dal vaccino antimeningococco, somministrato su raccomandazione sanitaria: ciò che conta è che la vaccinazione sia avvenuta nell’interesse della collettività, a prescindere dall’obbligatorietà formale. Oggi, dunque, chiunque riporti un’infermità permanente a causa di un vaccino effettuato nell’ambito dei piani vaccinali pubblici – sia esso obbligatorio o solo consigliato – ha diritto a questo sostegno economico.
Per ottenere l’indennizzo occorre presentare una domanda amministrativa (di regola, alla ASL competente) corredata dalla documentazione medica, entro 3 anni dal momento in cui si è manifestato il danno (termine elevato a 10 anni in caso di decesso). In passato questa scadenza rigida ha creato problemi: spesso il danneggiato non collegava subito la patologia al vaccino, oppure quando si vaccinò quel tipo di vaccino non era ancora indennizzabile per legge, e lo diventò solo dopo. Applicando letteralmente il termine triennale, molti aventi diritto sarebbero rimasti esclusi. Per evitare ingiustizie del genere (summum ius, summa iniuria, il massimo rigore del diritto può sfociare in ingiustizia), i giudici hanno abbracciato un approccio più equo: contra non valentem agere non currit praescriptio, la prescrizione non corre contro chi non può agire. In pratica, finché la persona danneggiata non è posta nelle condizioni di agire, il termine non decorre. Una tappa fondamentale è la Corte Costituzionale, sent. n. 35/2023, che ha chiarito che il termine di 3 anni inizia a decorrere solo da quando l’interessato ha piena consapevolezza non solo del danno, ma anche della sua indennizzabilità. Ciò significa che, se al momento in cui il danno si manifesta la legge ancora non prevedeva indennizzi per quel vaccino, la prescrizione resta congelata finché non interviene una norma (o sentenza) ad aprire quello spiraglio di tutela. Sulla scia di questo principio, la Cassazione, Sez. Lav., sent. n. 23590/2025 (20 agosto 2025) ha ulteriormente ribadito che ai fini del termine triennale conta non solo la conoscenza del danno, ma anche la conoscenza del diritto all’indennizzo. Dunque il dies a quo (giorno iniziale) scatta quando il danneggiato sa, o avrebbe potuto sapere con ordinaria diligenza, sia della patologia causata dal vaccino sia del fatto che per quel danno esiste un indennizzo previsto. Questo orientamento, fortemente pro misero, evita che chi ha subìto un danno venga beffato due volte – prima dalla sfortuna biologica e poi da un termine scaduto mentre ancora ignorava di poter chiedere aiuto allo Stato.
Da quanto sopra emerge che l’indennizzo pubblico è oggi un istituto più inclusivo e accessibile rispetto al passato: copre un ventaglio più ampio di vaccini (non solo obbligatori ma anche raccomandati) e tutela i ritardatari in buona fede sul piano dei termini. Si tratta comunque di una forma di ristoro parziale. Per chi ha riportato conseguenze gravissime, la somma periodica statale può risultare modesta rispetto all’effettivo sconvolgimento di vita. Ecco perché, accanto all’indennizzo, resta aperta la via di un’azione civile per ottenere il risarcimento integrale del danno.
L’indennizzo è una tutela senza colpa ma anche senza piena compensazione. Invece il risarcimento civile mira a ristorare integralmente tutti i danni subiti, patrimoniali e non, ma presuppone di individuare una responsabilità giuridica a carico di uno o più soggetti. In altre parole, per ottenere più di quanto offre l’assegno statale, il danneggiato deve dimostrare che il suo pregiudizio è dovuto a un illecito: ad esempio un prodotto difettoso, una negligenza medica o un comportamento colpevole di un’istituzione. Nel contesto vaccinale, le possibili azioni di risarcimento sperimentate in questi anni sono state essenzialmente di tre tipi:
Azione contro il produttore del vaccino per “prodotto difettoso” – ai sensi degli artt. 114 e segg. del Codice del Consumo, la casa farmaceutica risponde dei difetti di sicurezza del vaccino che abbiano causato danno. Si tratta di una responsabilità oggettiva (senza colpa): il danneggiato deve provare il difetto del prodotto, il nesso causale con l’evento avverso e il danno subito, mentre il produttore può andare esente solo dimostrando circostanze particolari previste dalla legge (ad esempio il c.d. rischio da sviluppo, ossia che allo stato delle conoscenze scientifiche al momento della distribuzione non era prevedibile quell’effetto nocivo, ex art. 118 Cod. Consumo). Questa strada è stata percorsa in alcuni casi: un esempio rilevante è quello deciso dalla Cass. civ., Sez. III, sent. n. 8224/2025 (28 marzo 2025). La vicenda riguardava un uomo deceduto per encefalomielite dopo un vaccino antinfluenzale. I familiari avevano citato la casa farmaceutica produttrice, sostenendo che il vaccino fosse difettoso perché mancavano studi adeguati sugli anziani con certe comorbilità. In appello era stato riconosciuto il risarcimento, ma mescolando criteri di responsabilità diversi (era stato applicato un onus probandi alleggerito, tipico di altre fattispecie). La Cassazione ha annullato tutto, ribadendo che ogni regime di responsabilità ha regole proprie: se si procede per prodotto difettoso, non si possono invocare facilitazioni probatorie da altre discipline (come l’art. 2050 c.c. sulle attività pericolose). Nel rinviare a nuova valutazione, la Suprema Corte ha sottolineato che chiamare in causa il produttore per un effetto avverso grave è possibile, ma il caso dev’essere impostato correttamente: occorre provare che il vaccino non offriva la sicurezza che era lecito attendersi, cioè presentava un’anomalia (ad esempio un’informazione insufficiente su controindicazioni, un lotto contaminato, ecc.). Diversamente, se il vaccino era intrinsecamente sicuro e il problema è stato solo una reazione imprevedibile, non c’è difetto imputabile all’azienda.
Azione per colpa medica o dell’ente sanitario – si tratta della classica responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.) o contrattuale sanitaria, se si riesce a individuare un errore, negligenza o omissione da parte di chi ha effettuato la vaccinazione. Pur essendo la procedura vaccinale generalmente standardizzata e sicura, possono capitare ad esempio errori di conservazione del vaccino (dosi mal conservate che diventano dannose), errori nella somministrazione (infezioni da manovre errate), oppure – aspetto più rilevante – mancata acquisizione di un consenso informato adeguato. Sul tema del consenso informato c’è una giurisprudenza interessante: la Cass. civ., Sez. III, ord. n. 28691/2024 (depositata il 7 novembre 2024) ha affrontato il caso di un bambino rimasto gravemente disabile dopo le vaccinazioni dell’infanzia (vaccino esavalente obbligatorio, seguito a breve distanza dal vaccino trivalente MPR che all’epoca era solo raccomandato). In giudizio non è stata provata l’esistenza di un nesso causale tra i vaccini e l’autismo insorto (le corti di merito hanno escluso collegamenti, richiamando la letteratura scientifica consolidata che smentisce tale correlazione). Tuttavia, la Corte d’Appello aveva condannato l’azienda sanitaria a risarcire i genitori con €10.000 per violazione del diritto al consenso informato riguardo al vaccino MPR, proprio perché non obbligatorio: i sanitari non avevano informato mamma e papà dei possibili (seppur rari) effetti collaterali di quel vaccino “facoltativo”, privandoli della possibilità di scegliere consapevolmente. La Cassazione ha confermato questo principio: anche se un danno non era evitabile o prevedibile, la mancata informazione costituisce di per sé un danno da lesione dei diritti autodeterminativi del paziente, meritevole di un ristoro simbolico. Dunque i medici e le strutture possono incorrere in responsabilità se non rispettano gli obblighi informativi: il consenso informato va sempre acquisito correttamente, ancor più per i vaccini non obbligatori (dove il paziente avrebbe teoricamente diritto di rifiutare, dopo essere stato informato), ma anche per quelli obbligatori è comunque doveroso spiegare rischi e benefici e mettere il paziente al corrente di tutto il necessario (pur non potendo egli sottrarsi al trattamento imposto dalla legge).
Azione verso il Ministero della Salute – in alcuni casi i danneggiati hanno chiamato in giudizio direttamente lo Stato (Ministero della Salute o ASL) non solo per ottenere l’indennizzo ex lege, ma accusandolo di responsabilità civile ulteriore. Si tratta di ipotesi più rare e complesse: ad esempio, si potrebbe sostenere una culpa in vigilando del Ministero per non aver adeguatamente controllato la sicurezza di un vaccino poi rivelatosi difettoso, oppure – come tentato da alcuni durante l’emergenza Covid – ritenere lo Stato responsabile di scelte coercitive o organizzative lesive di diritti. Finora queste azioni non hanno avuto successo se non ricondotte ai casi di cui sopra (difetto del prodotto o colpa medica). Va ricordato che la legge italiana ha anche istituito un fondo di indennizzo speciale Covid per i familiari degli operatori sanitari deceduti in servizio durante la pandemia (L. 178/2020), ma qui entriamo in misure straordinarie che esulano dal danno vaccinale in sé.
È importante sottolineare che, se si opta per la via del risarcimento civile, non è possibile sommare diversi fondamenti contemporaneamente per lo stesso fatto: bisogna scegliere su quale terreno impostare la causa. Ad esempio, non si può contemporaneamente far valere il difetto del vaccino e la responsabilità generica per attività pericolosa cercando il meglio di entrambi i regimi. Questo concetto è stato chiarito da Cass. civ., Sez. III, sent. n. 8224/2025 (28 marzo 2025) citata prima: il danneggiato può decidere quale strada percorrere, ma non può “mescolare le mappe” a proprio vantaggio. Ogni schema di responsabilità ha regole e oneri probatori specifici, e i giudici sono attenti a impedire indebite sovrapposizioni.
Un capitolo a parte riguarda le conseguenze dell’obbligo vaccinale per alcune categorie di lavoratori, in particolare il personale sanitario durante l’emergenza Covid-19. Nel 2021–2022, per medici, infermieri e altri operatori sanitari vigeva l’obbligo di vaccinarsi contro il Covid, pena la sospensione dal servizio e dalla retribuzione. Diversi operatori che avevano rifiutato il vaccino sono stati sospesi dal lavoro senza stipendio per mesi; alcuni hanno impugnato questi provvedimenti disciplinari sostenendo fossero illegittimi e chiedendo il rimborso delle retribuzioni perdute. La giurisprudenza formatasi sul punto ha però confermato la legittimità di tali sospensioni. In particolare, la Cassazione, Sez. Lavoro, sent. n. 9243/2025 (8 aprile 2025) ha respinto il ricorso di alcuni operatori sanitari no-vax che chiedevano il pagamento degli stipendi relativi al periodo di sospensione: la Corte ha confermato che l’inosservanza dell’obbligo vaccinale legittimava la sospensione sia dal servizio che dalla paga, trattandosi di una misura prevista per legge a tutela della salute collettiva. Un ulteriore pronunciamento, la Cass. civ., Sez. Lavoro, sent. n. 1881/2025, ha evidenziato come il rapporto di lavoro dei sanitari implichi una posizione di garanzia verso i pazienti: il medico che sceglie di non vaccinarsi, in presenza di un obbligo legale, viene meno ai suoi doveri deontologici e pone a rischio i soggetti fragili che assiste, giustificando provvedimenti restrittivi. In sostanza, i giudici hanno sancito che la tutela della salute pubblica può imporre sacrifici temporanei sul piano individuale (come la sospensione del lavoratore non vaccinato), senza che ciò configuri un illecito risarcibile. Non vi è spazio per chiedere risarcimenti da parte di chi è stato sospeso per non aver ottemperato all’obbligo: tali provvedimenti, se adottati in base alla legge, sono legittimi e non danno diritto ad alcun indennizzo economico.
Discorso diverso potrebbe porsi se un lavoratore obbligato a vaccinarsi avesse subito un danno dalla vaccinazione stessa. In quel caso, come visto, avrebbe accesso all’indennizzo statale e – potenzialmente – anche al risarcimento completo qualora emergessero responsabilità per prodotto difettoso o difetti organizzativi. Ma non vi è una responsabilità datoriale o dello Stato in re ipsa solo per aver imposto il vaccino: la Corte Costituzionale (ord. n. 5/2018 e sent. n. 14/2023, tra le altre) ha più volte affermato che l’obbligo vaccinale, se fondato su esigenze sanitarie pubbliche, non viola la Costituzione, specie se accompagnato da misure di indennizzo per gli eventuali danneggiati. Il sistema dunque prevede già al suo interno il rimedio solidaristico dell’indennizzo e, ove ne ricorrano i presupposti, del risarcimento civile, senza configurare ulteriori colpe a carico dello Stato quando l’obbligo è emanato correttamente per tutela della salute collettiva (principio di proporzionalità).
Dal quadro emerso, si può concludere che l’ordinamento italiano ha costruito un sistema di tutela articolato per fronteggiare i (rarissimi) casi di danni da vaccino. Lo spirito di fondo è quello di non lasciare solo chi ha subito un pregiudizio personale nell’adempimento di un dovere sociale di prevenzione. Oggi chi riporta un’infermità permanente causata dalla vaccinazione ha innanzitutto diritto a un indennizzo statale garantito, che arriva in tempi relativamente rapidi e senza necessità di dimostrare colpe altrui. Questo costituisce una base di aiuto concreto. Oltre a ciò, per le conseguenze più gravi, è possibile valutare un’azione risarcitoria in sede civile per ottenere il pieno ristoro di tutti i danni subiti: in questi casi sarà necessario coinvolgere un avvocato e affrontare un iter probatorio, ma recenti sentenze hanno tracciato confini più netti e favorito i danneggiati su vari fronti (dilatazione dei termini, ampliamento dei casi indennizzabili, criteri di cumulabilità). Il diritto sta cercando un equilibrio tra l’esigenza di proteggere la salute pubblica e quella di giustizia verso il singolo: se salus populi suprema lex, è pur vero che la supremazia della salute collettiva non può tradursi in sacrifici irreparabili a carico di pochi sfortunati. Ogni individuo danneggiato da un trattamento a beneficio di tutti merita attenzione e tutela, sia economica sia giuridica.
In definitiva, chi ha subìto un danno da vaccino dispone oggi di strumenti concreti per far valere i propri diritti. Il consiglio è di attivarsi tempestivamente, rivolgendosi a professionisti esperti, per valutare caso per caso le opzioni disponibili: dalla domanda di indennizzo amministrativo (da presentare con la documentazione medica necessaria) all’eventuale azione giudiziaria per colmare le voci di danno non coperte. Il quadro normativo e giurisprudenziale è in continua evoluzione, ma ha mostrato un chiaro orientamento: nessuno deve rimanere vittima dimenticata degli eventi avversi da vaccino. Attraverso indennizzi pubblici e, quando serve, risarcimenti civili, l’ordinamento assicura una rete di protezione affinché la fiducia riposta nella scienza e nella solidarietà non venga tradita.
Redazione - Staff Studio Legale MP