
Quando l’amore finisce, i soldi spesi restano persi?
Molte coppie conviventi condividono spese significative durante la relazione: pagamento delle rate del mutuo intestato a uno solo, ristrutturazioni o migliorie nell’abitazione comune, sostegno economico al partner con reddito più basso. È naturale chiedersi, al momento della separazione, se chi ha sostenuto maggiori oneri possa ottenere un rimborso. Dura lex, sed lex: le ultime decisioni dei giudici indicano che nella maggior parte dei casi la risposta è negativa. I tribunali tendono a considerare queste spese come parte dei normali doveri di solidarietà tra conviventi, non come prestiti da restituire. In altri termini, l’ordinamento vede la convivenza more uxorio (come marito e moglie, ma senza matrimonio) come una comunità affettiva in cui i contributi economici reciproci sono spontanei e non vincolati da obblighi giuridici di restituzione.
Le obbligazioni naturali tra conviventi
In diritto civile esiste la figura dell’obbligazione naturale, prevista dall’art. 2034 c.c., che ricorre quando una prestazione è eseguita per un dovere morale o sociale e non può essere ripetuta (cioè richiesta indietro). La convivenza rientra proprio in questa situazione: vivere insieme comporta una cooperazione economica spontanea dettata dall’affetto e dalla comunanza di vita. Alimentare, vestire, pagare il mutuo o le bollette mentre si convive con qualcuno rientra nei doveri di assistenza morale e materiale che ciascun partner assume verso l’altro. Come ha spiegato la Cassazione, la convivenza di fatto è riconosciuta come formazione sociale tutelata dall’art. 2 della Costituzione; all’interno di essa sorgono obblighi di fatto – appunto le obbligazioni naturali – che non danno luogo, in caso di inadempimento o cessazione, a pretese risarcitorie o restitutorie.
In questo senso la giurisprudenza è costante da tempo. Già in passato la Suprema Corte aveva affermato che i versamenti di denaro effettuati in una relazione affettiva stabile costituiscono adempimento di obblighi morali e non sono ripetibili (si veda ad esempio Cass. civ. n. 11303/2020 e precedenti analoghi). Ciò significa che se durante la convivenza uno dei partner paga regolarmente spese comuni o intestate all’altro, non potrà poi, finita la storia, pretendere la restituzione di quelle somme – a meno che, come vedremo, esse eccedano i limiti della normale contribuzione. Come recita un noto adagio letterario, «Non fare prestiti e non chiederne: chi presta perde denaro e amico» (W. Shakespeare). Nel contesto delle unioni di fatto, chi “presta” denaro al compagno in realtà sta adempiendo a un dovere morale interno al rapporto: non è un prestito formale, e volerlo riavere indietro può significare “perdere” sia i soldi sia, metaforicamente, il valore di quel gesto d’amore ormai concluso.
Il principio confermato dalla Cassazione nel 2025
Proprio su questi concetti la Corte di Cassazione è tornata nel 2025 con più pronunce che hanno fatto il punto sulla questione. In particolare, la Cassazione civile, Sez. III, ord. n. 11337/2025 (30 aprile 2025) ha sancito che il convivente che paga le rate del mutuo dell’altro durante la convivenza non ha diritto al rimborso di quanto versato dopo la fine della relazione, purché tali esborsi risultino proporzionati al tenore di vita e alle capacità economiche di chi li ha effettuati. Nel caso concreto esaminato in quella decisione, un uomo aveva contribuito per tre anni al pagamento di circa 24.000 euro di rate del mutuo intestato alla compagna, che all’epoca non aveva un reddito. Terminata la relazione, l’uomo aveva chiesto la restituzione di parte di quella somma, sostenendo di aver sostenuto un peso economico eccessivo rispetto alle proprie possibilità. Ebbene, la Corte d’Appello – poi pienamente supportata dalla Cassazione – ha escluso qualsiasi rimborso: ha ritenuto che quelle uscite mensili (circa 600-700 euro al mese) fossero in linea con una normale condivisione delle spese di convivenza, paragonabile al pagamento di un affitto congiunto. In sostanza, l’importo versato mensilmente non era sproporzionato rispetto alla situazione economica dell’uomo e al beneficio goduto (abitare insieme nella casa); di conseguenza, tali somme sono state qualificate come adempimento di un’obbligazione naturale, definitivamente irripetibili.
La Suprema Corte, richiamando principi consolidati, ha sottolineato che l’azione di arricchimento senza causa (art. 2041 c.c.) è uno strumento di carattere sussidiario, utilizzabile solo in mancanza di altre tutele contrattuali o specifiche. Nel contesto delle convivenze, l’arricchimento di un partner a spese dell’altro non è “ingiusto” se trova giustificazione in un dovere morale o sociale. Tradotto in termini pratici: se i soldi versati avevano una giusta causa – in questo caso la solidarietà familiare di fatto – non possono essere reclamati. È necessario invece che ci sia un eccesso evidente, uno squilibrio non giustificato dal rapporto affettivo, perché chi ha dato di più possa invocare la restituzione.
Il limite della proporzionalità: quando scatta l’ingiusto arricchimento
Come tutte le regole, anche quella delle obbligazioni naturali ha le sue eccezioni. La stessa Cassazione ammette che non tutte le prestazioni economiche tra conviventi sono automaticamente immuni da restituzione. Il parametro chiave per distinguere un semplice dovere morale da un arricchimento ingiusto è la proporzionalità del contributo rispetto alle circostanze. Se un convivente dovesse sostenere spese del tutto sproporzionate rispetto alle proprie capacità economiche, oppure finanziarie di entità abnorme non spiegabili come normale aiuto reciproco, allora si potrebbe configurare un diritto alla restituzione. La Cassazione (ord. n. 11337/2025 cit.) ha proprio evidenziato questo aspetto: solo laddove i versamenti “trascendano i normali doveri morali e sociali del rapporto di coppia, risultando sproporzionati o inadeguati rispetto alla condizione patrimoniale” di chi li ha effettuati, si potrà valutare un’azione per ingiustificato arricchimento.
In passato, ad esempio, ci sono state pronunce in cui la giustizia ha riconosciuto un rimborso al convivente economicamente più gravato. Pur non avvenendo nel 2025, è noto il caso (Cass. civ. sent. n. 21479/2018) di un uomo che aveva versato somme ingentissime per l’acquisto di immobili intestati alla compagna: in quella vicenda la Corte ritenne che si fosse oltrepassato il limite del sacrificio economico esigibile per dovere morale, configurando così un arricchimento senza causa a favore della partner. In situazioni estreme come quella – dove il contributo eccede di gran lunga quanto sarebbe stato “normale” nell’economia della coppia – il partner che ha dato di più può avere diritto a un indennizzo o rimborso parziale. Si tratta comunque di ipotesi residuali: il giudice valuterà caso per caso, con prudenza, se davvero vi sia uno squilibrio ingiustificato. La giurisprudenza richiede, in concreto, di verificare l’entità delle somme versate in rapporto al patrimonio e al reddito di chi le ha pagate, nonché al vantaggio concretamente ottenuto dall’altro partner.
Migliorie sulla casa del partner: ancora un no ai rimborsi
Un caso particolare, deciso anch’esso di recente, riguarda i lavori di miglioramento eseguiti sulla casa di proprietà dell’altro partner. Cosa accade se, durante la convivenza, uno dei due sostiene spese per ristrutturare o accrescere il valore di un immobile intestato solo all’altro, magari la casa familiare dove vive la coppia? Al termine della relazione, il partner non proprietario può chiedere un’indennità o un rimborso per le migliorie apportate? La Cassazione civile, Sez. II, ord. n. 28443/2025 (27 ottobre 2025) ha affrontato proprio questa situazione, negando anche in tal caso la possibilità di recuperare le spese sostenute. Nella vicenda esaminata, un coniuge (in regime di separazione dei beni) aveva a proprie spese realizzato opere di ristrutturazione e miglioramento nell’abitazione intestata all’altro coniuge, destinata a casa comune. Dopo la separazione, aveva rivendicato il diritto a un’indennità per le migliorie o almeno al rimborso di parte dei costi. La Suprema Corte ha però stabilito che il partner non proprietario non gode né di tutela possessoria né di un diritto di indennizzo per le migliorie eseguite nell’immobile altrui nell’ambito della convivenza (o del matrimonio con separazione dei patrimoni), salvo diversa pattuizione tra le parti. Le spese per i lavori, in assenza di un accordo specifico, si presumono effettuate per volontà di contribuzione alla vita familiare. Anche qui, dunque, vale il principio che i benefici reciproci nella coppia (come avere una casa più confortevole) sono frutto di un impegno spontaneo, e chi investe denaro nella casa dell’altro lo fa a proprio rischio, senza aspettarsi un ristoro economico successivo. La Corte ha escluso sia l’applicazione delle norme sulla comunione delle migliorie sia quella sulle spese fatte dal possessore (artt. 1150 e 1152 c.c.), ritenendo che il convivente non proprietario non abbia la posizione giuridica del possessore autonomo, ma sia un semplice detentore qualificato per ragioni familiari. Di conseguenza, non matura neppure quel diritto di ritenzione o rimborso che spetterebbe al possessore di buona fede per i miglioramenti apportati al bene altrui. In termini semplici: chi ha pagato i lavori in casa del partner non proprietario non può trattenerne l’uso né pretendere soldi indietro, a meno di accordi o promesse concrete violati (nel qual caso si esulerebbe però dalla pura convivenza e si entrerebbe nel campo di eventuali patti contrattuali da far valere separatamente).
Eccezioni e raccomandazioni
Questi orientamenti giurisprudenziali delineano un quadro in cui il convivente “generoso” non è legalmente tutelato nel recupero di quanto dato per la famiglia di fatto, salvo rari casi di contributi davvero abnormi. Cosa può fare, allora, chi si trova in queste situazioni? In primo luogo, è bene essere consapevoli di questo assetto normativo: i conviventi dovrebbero affrontare le spese comuni con la cognizione che non esiste un meccanismo di divisione postumo come avviene, invece, in un matrimonio sotto comunione dei beni o in un’impresa societaria. Se si intendono regolare diversamente i rapporti economici, occorre pianificarlo contrattualmente. Ad esempio, si potrebbe stipulare un accordo scritto di riconoscimento di debito o di rimborso per determinate somme (pur sempre revocabile in certa misura) oppure ricorrere agli strumenti offerti dalla legge sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto (Legge n. 76/2016), come il contratto di convivenza. Quest’ultimo può prevedere modalità di contribuzione alle spese e criteri di divisione in caso di cessazione della convivenza. Tuttavia, va detto che anche con un contratto di convivenza non si può derogare ai principi generali sulle obbligazioni naturali per le spese ordinarie di mantenimento: più che altro si possono disciplinare gli acquisti importanti e i beni intestati.
Un’altra eccezione da ricordare è che, sebbene il rimborso non sia dovuto in sede civile, nulla vieta ad un convivente di chiedere misure di giustizia equitativa in casi estremi. Un esempio è rappresentato dall’ipotesi in cui uno dei partner abbia sfruttato l’altro economicamente in malafede: in tali casi limite, si potrebbero ipotizzare profili di responsabilità civile ulteriori (ad es. arricchimento con dolo, o altre figure di illecito) anche se raramente riconosciuti in giurisprudenza.
In conclusione, il messaggio delle sentenze recenti è che i conviventi devono agire con prudenza: aiutare economicamente il proprio compagno rientra nell’impegno morale assunto con la convivenza e non dà diritto a restituzioni dopo la fine dell’unione, a meno che non ci si trovi di fronte a contributi eccezionalmente onerosi tali da rompere l’equilibrio di giustizia naturale. “Summum ius, summa iniuria” – portare all’estremo le rivendicazioni giuridiche in rapporti basati sull’affetto può risultare eccessivo e persino ingiusto, secondo la filosofia sottesa alle pronunce dei giudici. Chi affronta la fine di una convivenza, pertanto, deve essere consapevole che molte spese restano a carico di chi le ha fatte, come parte dell’esperienza condivisa, senza possibilità di rimborso.
Redazione - Staff Studio Legale MP