
Nel diritto civile italiano, chi gestisce un bene (sia esso un ente pubblico o un privato) risponde dei danni causati dalle cose che ha in custodia, a meno che provi che l’evento sia dovuto a un caso fortuito. Questo principio, sancito dall’art. 2051 del codice civile, impone al custode un dovere di prevenzione e vigilanza. Abundans cautela non nocet: un eccesso di prudenza non fa mai male, soprattutto quando si tratta di garantire la sicurezza di scale, strade e altre strutture aperte al pubblico. D’altro canto, la norma non trasforma il custode in un assicuratore universale contro qualsiasi incidente: se la causa del danno è imprevedibile o estranea alla sua sfera di controllo, non vi è responsabilità.
La saggezza popolare avverte: «Chi è causa del suo mal pianga se stesso». Questo detto ben riassume l’approccio dei tribunali nei casi in cui l’incidente è dovuto principalmente all’imprudenza di chi ne è vittima. La Corte di Cassazione, con una pronuncia recente, ha fornito un esempio emblematico destinato a fare scuola. Parliamo dell’ordinanza n. 29760/2025, Sez. III civile, relativa a una rovinosa caduta occorsa sulla monumentale scalinata di Trinità dei Monti, a Roma. In quel caso una donna, scendendo i celebri gradini settecenteschi, era inciampata riportando lesioni e aveva citato in giudizio il Comune per ottenere il risarcimento. I giudici, confermando la decisione sfavorevole già emessa in appello (Corte d’Appello di Roma, sent. n. 69/2025), hanno negato ogni indennizzo alla danneggiata. Il motivo? Dalle risultanze processuali è emerso che il rischio era perfettamente percepibile e che la caduta era evitabile con l’uso dell’ordinaria attenzione.
La Cassazione ha sottolineato due aspetti fondamentali. Primo: anche se la responsabilità ex art. 2051 c.c. è oggettiva, serve pur sempre la prova del nesso causale tra la cosa e il danno. Nel caso della scalinata, tale prova mancava, perché non è stato dimostrato un difetto specifico dei gradini che abbia provocato lo scivolone. Secondo: quando la situazione di possibile pericolo è chiara e superabile con normali cautele, l’imprudenza del passante può costituire essa stessa il caso fortuito che interrompe il nesso di causa. In altre parole, se chi cade avrebbe potuto prevedere ed evitare il danno usando la dovuta attenzione, la sua condotta imprudente diventa la causa esclusiva dell’evento. Applicando questi principi al caso concreto, la Suprema Corte ha evidenziato che la scala monumentale in questione presentava caratteristiche ben visibili, era priva di anomalie occulte e la vittima stessa conosceva il luogo. Di conseguenza, la responsabilità del custode pubblico è stata esclusa: “la condotta disattenta del pedone ha integrato il caso fortuito, esonerando il Comune da responsabilità” (Cass. civ., Sez. III, ord. n. 29760/2025).
Questa decisione si inserisce in un orientamento consolidato, ulteriormente rafforzato da altre pronunce ravvicinate. In tema di cadute in spazi aperti al pubblico, la giurisprudenza ha più volte ribadito che il custode non risponde quando l’evento è ascrivibile alla negligenza della vittima. Ad esempio, la Cassazione ha affermato che anche la caduta all’uscita di un supermercato può non essere risarcita se dovuta alla disattenzione del cliente (Cass. civ., Sez. III, ord. n. 24071/2025). In tale vicenda, una persona era scivolata sul pavimento antistante le casse di un esercizio commerciale, ma dalle prove era emerso che il tratto era perfettamente asciutto e privo di insidie: l’unica causa dell’incidente era stata la condotta imprudente della cliente, che non aveva guardato dove metteva i piedi. Anche in quel caso, quindi, la richiesta di risarcimento è stata respinta, avendo il giudice ritenuto integrato il caso fortuito per comportamento colposo della vittima.
Va chiarito che la condotta colposa del danneggiato può assumere rilievo sia per escludere totalmente la responsabilità altrui, sia – in altri frangenti – per ridurre il risarcimento dovuto. Nel contesto dell’art. 2051 c.c., se l’imprudenza del danneggiato è tale da spiegare da sola l’evento (escludendo qualsiasi incidenza causale della cosa custodita), allora siamo di fronte a un caso fortuito in senso proprio, che libera integralmente il custode. Se invece la cosa in custodia presenta una sua pericolosità e al tempo stesso la vittima non usa le dovute cautele, si entra nell’ambito del concorso di colpa: in base all’art. 1227 c.c., il risarcimento può essere diminuito proporzionalmente. Si pensi al caso di un marciapiede dissestato e mal illuminato, sul quale però la persona cammini distratta guardando il cellulare: l’ente proprietario potrà essere ritenuto responsabile solo in parte, tenuto conto della corresponsabilità del passante poco prudente. La distinzione è sottile e dipende dalle circostanze: se la cosa è oggettivamente pericolosa e difettosa, la colpa del danneggiato rileva come concausa (riducendo l’indennizzo); se la cosa non ha difetti occulti significativi e l’incidente era evitabile con normale prudenza, la colpa del danneggiato assurge a causa esclusiva (eliminando l’indennizzo).
Un altro elemento chiave emerso dalle sentenze recenti è l’importanza della prova concreta del difetto o della condizione insidiosa. Il danneggiato, per ottenere ristoro in virtù dell’art. 2051, deve provare l’esistenza di un nesso causale tra una caratteristica della cosa (per esempio un gradino rotto, un avvallamento non segnalato, una chiazza d’olio sul pavimento) e la caduta. Solo dopo aver dimostrato questo collegamento scatta la presunzione di responsabilità a carico del custode, che potrà liberarsi provando il caso fortuito. In mancanza di tale prova iniziale, la domanda risarcitoria è destinata a fallire. Nel caso di Trinità dei Monti, per esempio, la ricorrente non aveva fornito alcuna evidenza specifica sullo stato dei singoli gradini al momento dell’incidente (fotografie, testimonianze sul punto esatto della caduta, ecc.): una genericità probatoria che è risultata fatale alla sua pretesa. La Cassazione ha infatti ricordato che allegazioni generiche sulle condizioni del luogo non bastano: senza elementi concreti, non si può ritenere provata la “normalità causale” tra la cosa e l’evento dannoso (Cass. civ., Sez. III, ord. n. 22242/2025). In quell’ordinanza viene richiamato un principio basilare: la responsabilità ex art. 2051 c.c. richiede pur sempre la dimostrazione di un collegamento causale, e non può essere confusa con una forma di indennizzo automatico per chiunque si faccia male.
È importante evidenziare che queste pronunce non intendono deresponsabilizzare del tutto gli enti custodi, bensì delineare in modo più netto i confini del loro dovere di controllo. La Pubblica Amministrazione (così come qualunque altro custode) rimane gravemente inadempiente se non mantiene in condizioni di sicurezza le proprie strutture, ma non può essere ritenuta colpevole per eventi dovuti a mera sfortuna o distrazione altrui. In passato si parlava di insidia o trabocchetto per indicare quei pericoli nascosti e non segnalati che fondavano la responsabilità dell’ente ai sensi dell’art. 2043 c.c. Oggi, con l’applicazione generalizzata dell’art. 2051 c.c. anche alla P.A., il concetto di “insidia” si traduce nell’assenza del caso fortuito: se esiste un’insidia non visibile né evitabile con la comune diligenza, allora il custode difficilmente potrà sottrarsi alla responsabilità. Viceversa, in presenza di ostacoli prevedibili con l’ordinaria attenzione, non si configura quell’elemento di imprevedibilità che la legge richiede per attribuire la colpa al custode.
In definitiva, il messaggio lanciato dalle ultime sentenze è chiaro: chi transita su scale, marciapiedi o altre proprietà altrui deve usare la normale prudenza, perché non ogni caduta genera un diritto al risarcimento. Per ottenere il ristoro dei danni, la vittima deve dimostrare un’insufficiente cura da parte del custode (ad esempio una mancata manutenzione, un difetto strutturale o la mancata segnalazione di un pericolo). Se tale prova riesce, il custode avrà comunque la possibilità di esonerarsi dimostrando che l’evento è dipeso da cause eccezionali non a lui imputabili – che, come abbiamo visto, possono includere anche il comportamento imprudente e imprevedibile dello stesso danneggiato. Al contrario, se chi cade non riesce a individuare alcuna anomalia concreta nella cosa, o se l’unica anomalia è la propria disattenzione, la pretesa risarcitoria non potrà che cadere nel vuoto.
Redazione - Staff Studio Legale MP