
Anche se la strada è ancora molto lunga, la riforma ridisegna l’accertamento dell’invalidità e della disabilità, introducendo criteri unificati, valutazioni multidimensionali e un linguaggio aggiornato; al contempo le pronunce recenti riaffermano i diritti inviolabili delle persone con disabilità, imponendo alle istituzioni di garantire supporti adeguati e piena inclusione.
L’Italia sta lentamente cambiando il modo in cui riconosce e tutela la disabilità. Una nuova riforma ha introdotto parametri moderni per l’accertamento dell’invalidità civile, spostando l’attenzione dalle percentuali a una visione globale della persona e dei suoi bisogni. Al contempo, recenti sentenze hanno rafforzato i diritti delle persone con disabilità – dall’inclusione scolastica all’autonomia individuale – tracciando confini chiari oltre i quali le esigenze di bilancio o il paternalismo non possono spingersi. Queste novità delineano un sistema più equo, rispettoso della dignità e delle esigenze di chi vive in condizioni di fragilità.
Verso un nuovo concetto di disabilità
La legge delega n. 227/2021 e il Decreto Legislativo 3 maggio 2024 n. 62 hanno posto le basi per un cambiamento radicale nel modo di definire e accertare la disabilità. Viene adottata una nozione ispirata alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, incentrata non più soltanto sul deficit medico, ma sull’interazione tra la condizione personale e le barriere ambientali. In concreto, termini considerati superati come “handicap” o “invalido” vengono sostituiti da espressioni più rispettose: si parla di “persona con disabilità” e di “compromissione” invece di “menomazione”. Cambia anche il parametro della gravità: non più una categoria binaria (disabile grave o non grave), ma un ventaglio di livelli di sostegno necessario (lieve, medio, intensivo elevato, intensivo molto elevato). L’obiettivo è riconoscere formalmente che alcune persone, a causa delle loro condizioni, necessitano di un supporto molto più intenso di altre – e che tale necessità va attestata e garantita. La disabilità è dunque un fenomeno relazionale oltre che medico: «Penso che talvolta i veri limiti esistano in chi ci guarda», scriveva Candido Cannavò, sottolineando come spesso siano gli ostacoli sociali e culturali a creare l’handicap, più che la condizione in sé. Questo cambio di prospettiva impone al legislatore e alle istituzioni di rimuovere o ridurre le barriere (fisiche, digitali, organizzative) che impediscono la piena partecipazione della persona disabile alla vita collettiva, in linea con il principio costituzionale di uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.). La nuova definizione di disabilità inserita nella legge 104/1992, aggiornata dal d.lgs. 62/2024, recita infatti che è persona con disabilità chi ha durature compromissioni che, in interazione con barriere, limitano la partecipazione su base di uguaglianza con gli altri, accertate all’esito di una valutazione ufficiale. Si sancisce così che il riconoscimento ufficiale – e non la semplice diagnosi medica – è ciò che conferisce lo status di disabile, con tutti i conseguenti diritti. Viene inoltre valorizzato il concetto di progetto individuale di vita (già previsto dalla legge 328/2000), quale strumento per pianificare gli interventi di sostegno più adatti a garantire alla persona il massimo sviluppo possibile delle proprie capacità e il miglior inserimento sociale.
Criteri unificati e valutazione multidimensionale
Una delle novità più rilevanti della riforma è l’unificazione delle procedure di accertamento: anziché affrontare iter separati per invalidità civile, cecità, sordità, handicap ai fini scolastici (legge 104/1992) o lavorativi (legge 68/1999), dal 2025 è prevista un’unica procedura di valutazione della condizione di disabilità. La competenza medico-legale viene attribuita in via esclusiva all’INPS, che attraverso commissioni dedicate effettuerà la valutazione di base su tutto il territorio nazionale. Questa valutazione costituisce il momento fondamentale per quantificare la disabilità ai fini dei benefici economici, previdenziali e assistenziali. In seguito, è prevista una valutazione multidimensionale più approfondita, svolta da equipe composte non solo da medici, ma anche da operatori sociali e specialisti, finalizzata a predisporre un progetto di vita personalizzato per la persona con disabilità. Si tratta di un piano individuale che indica gli interventi sanitari, sociali, educativi e lavorativi necessari a garantire l’inclusione e il miglioramento della qualità di vita. L’adozione di questo approccio a due fasi (valutazione di base + valutazione multidimensionale) segna il passaggio da una logica meramente amministrativa – spesso limitata a un punteggio percentuale di invalidità – a una logica biopsicosociale, che considera la persona nella sua interezza. Verranno utilizzati nuovi strumenti, come la classificazione internazionale ICF dell’OMS e questionari standard (ad esempio il WHODAS 2.0), per misurare in modo più oggettivo il funzionamento dell’individuo nelle attività quotidiane e la presenza di barriere nel suo ambiente. Anche le tabelle di valutazione dell’invalidità civile sono destinate ad essere aggiornate: il Ministero della Salute dovrà emanare un regolamento con nuovi criteri che tengano conto dei progressi scientifici e dell’impatto effettivo delle patologie sulla vita della persona. Importante sottolineare che la riforma non intende abolire le percentuali – che restano utili per determinare soglie di accesso a prestazioni (es. pensione di invalidità al 74%, indennità di accompagnamento al 100% con necessità di assistenza continua) – ma mira a contextualizzare quei numeri all’interno di una valutazione più ampia e calibrata sui bisogni effettivi. In altri termini, due individui con la stessa percentuale di invalidità potranno avere progetti di vita e misure di sostegno differenti, se le loro situazioni personali lo richiedono. Questa flessibilità rappresenta un significativo passo avanti verso un sistema su misura, che cerca di coniugare equità e rigore tecnico. Del resto, ius est ars boni et aequi: il diritto è l’arte di ciò che è buono e giusto, e attraverso questi nuovi strumenti l’ordinamento vuole assicurare ad ogni persona con disabilità una risposta il più possibile giusta, equilibrando standard nazionali e personalizzazione dei supporti.
Sperimentazione, tutele transitorie e avvio graduale
Sebbene la riforma sia formalmente in vigore dal 30 giugno 2024, il suo dispiegamento pratico avverrà in modo graduale. Il legislatore ha previsto una fase di sperimentazione dei nuovi criteri di accertamento in alcune zone e per determinate patologie, al fine di testare il modello prima di estenderlo su scala nazionale. Inizialmente erano state individuate 9 province pilota e tre tipologie di disabilità per la sperimentazione (disturbi dello spettro autistico, diabete di tipo 2 e sclerosi multipla). Successivamente, con il decreto “Milleproroghe” (D.L. 27 dicembre 2024 n. 202, convertito in L. 15/2025), il Parlamento ha ampliato sia l’ambito territoriale sia quello patologico della sperimentazione: dal 30 settembre 2025 le province test sono state portate a 18 (aggiungendo, tra le altre, Alessandria, Lecce, Genova, Palermo, Vicenza, Trento, Aosta...) e il novero delle condizioni ricomprese è stato esteso includendo anche l’artrite reumatoide, le cardiopatie, le broncopatie croniche e le malattie oncologiche. Ciò significa che, in queste zone e per queste specifiche disabilità, il nuovo sistema di valutazione verrà applicato in anticipo, consentendo di verificarne l’efficacia e di apportare eventuali correttivi. Cruciale è la decisione di posticipare di un anno la piena entrata a regime della riforma: non più dal 1° gennaio 2026, come inizialmente previsto, ma dal 1° gennaio 2027. Fino a tale data, dunque, coesisteranno vecchio e nuovo sistema. Il Milleproroghe ha infatti stabilito che fino al 31 dicembre 2026 restano validi i criteri e le procedure attuali per chi presenta domanda di accertamento, e che tutte le prestazioni, benefici e agevolazioni già riconosciuti o maturati entro quella data sono garantiti. In pratica, nessuno perderà diritti acquisiti a causa del cambiamento delle regole: chi è già titolare di pensioni, indennità o riconoscimenti legge 104 continuerà a goderne senza dover essere rivalutato fino a dopo il 2026. Allo stesso modo, eventuali revisioni o verifiche sullo status di invalidità effettuate fino al 2026 seguiranno le vecchie norme anche nelle province in sperimentazione, per evitare disparità di trattamento. Durante questo periodo transitorio, il Ministero e l’INPS procederanno a formare il personale, adeguare i sistemi informativi e soprattutto emanare i regolamenti attuativi mancanti (come quello che aggiornerà le definizioni e i criteri medico-legali). Entro il 30 novembre 2026 dovrà, ad esempio, essere adottato il nuovo regolamento sulle modalità della valutazione di base, così da essere pronti per l’avvio nazionale del 2027. Un altro aspetto importante riguarda il “progetto di vita”: la legge prevede che anche coloro che hanno già una certificazione di handicap ai sensi della vecchia legge 104/1992 (quindi riconosciuti disabili prima della riforma) potranno richiedere, se lo desiderano, l’elaborazione di un progetto di vita personalizzato senza dover passare per la nuova valutazione di base. Si vuole dunque assicurare che i benefici della pianificazione personalizzata non siano riservati solo ai “nuovi” accertamenti, ma possano estendersi anche a chi è già nel sistema. Nel frattempo, restano in vigore l’art. 14 della legge 328/2000 sul progetto individuale e tutte le altre normative di tutela: il nuovo impianto normativo si innesta su questi strumenti esistenti, potenziandoli. In definitiva, la riforma parte con prudenza, senza strappi improvvisi, garantendo continuità di protezione e accompagnando il cambiamento con una sperimentazione controllata. È una scelta che bilancia l’urgenza di innovare con la necessità di non creare disservizi: in medio stat virtus, verrebbe da dire, poiché si cerca un equilibrio tra l’efficienza amministrativa e la salvaguardia delle situazioni delicate delle persone già riconosciute.
Diritti inviolabili: il ruolo della giurisprudenza
Parallelamente alle riforme normative, il 2025 ha visto i giudici italiani protagonisti nel riaffermare con forza i principi fondamentali a tutela delle persone con disabilità e fragilità. Numerose pronunce hanno tracciato una linea invalicabile: nessun compromesso è ammissibile quando sono in gioco diritti essenziali come l’istruzione, la salute, l’autodeterminazione. Emblematiche, in tal senso, sono alcune sentenze che vale la pena richiamare. In ambito scolastico, i tribunali amministrativi regionali (TAR) e il Consiglio di Stato hanno più volte censurato le amministrazioni che avevano ridotto il monte ore di sostegno agli alunni disabili per ragioni di organico o bilancio. Il T.A.R. Campania Napoli, Sez. II, sent. n. 1229/2025 (12 febbraio 2025) ha dichiarato illegittimo l’assegnare solo 18 ore di insegnante di sostegno a un alunno con disabilità grave, a fronte delle 40 ore settimanali di lezione: in assenza di un supporto sull’intero orario, il diritto allo studio veniva compromesso. Il tribunale ha ordinato di garantire tutte le ore di sostegno necessarie, sottolineando che le carenze di personale non possono in alcun caso giustificare la negazione del diritto allo studio. Sulla stessa linea si è posto il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1321/2025 del 1° luglio 2025, riguardante due alunni sordi cui il Comune aveva concesso un interprete LIS solo per metà dell’orario scolastico. Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello del Comune, ribadendo che l’istruzione delle persone con disabilità è un diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione (artt. 2, 3, 34) e che nessuna esigenza finanziaria può ridurre il “nucleo indefettibile” di ore di assistenza indicato nel PEI (Piano Educativo Individualizzato) dello studente. In altre parole, se un alunno ha bisogno di un certo numero di ore di sostegno o di assistenza specialistica, quelle ore devono essere fornite integralmente: le istituzioni hanno semmai il dovere di attivarsi per reperire risorse aggiuntive (dallo Stato, da fondi speciali), ma non possono scaricare sul minore la conseguenza dei propri limiti di bilancio. Queste sentenze amministrative, in definitiva, affermano un principio chiave: l’inclusione scolastica è un diritto incomprimibile, e i tagli ai sostegni educativi essenziali configurano una violazione intollerabile. Sul versante civile e dell’autonomia personale, spiccano le pronunce della Cassazione in tema di amministrazione di sostegno, che evidenziano il valore primario della libertà individuale. La Corte di Cassazione, Sez. I civ., con ordinanza n. 5088/2025 (depositata il 26 febbraio 2025), ha annullato la nomina di un amministratore di sostegno che era stata disposta in favore di un uomo adulto in assenza di una reale incapacità di intendere e volere. In quel caso, il figlio era semplicemente molto influenzato dalla madre, ma comunque capace di badare a sé stesso: i giudici di legittimità hanno chiarito che non basta una situazione di difficoltà emotiva o dipendenza psicologica per giustificare la compressione della capacità di agire di un soggetto. Imporre un amministratore senza necessità effettiva significherebbe tradire la finalità stessa dell’istituto, che deve servire a proteggere e non a mortificare la persona fragile. Poche settimane dopo, con ord. n. 6584/2025 (12 marzo 2025), la Cassazione ha confermato questo orientamento accogliendo il ricorso di un anziano al quale era stato imposto un amministratore di sostegno contro la sua volontà. Pur riconoscendo che l’uomo avesse qualche difficoltà fisica nel parlare e non gestisse in modo oculato il denaro (spendeva tutta la pensione ogni mese), la Suprema Corte ha ritenuto che fosse ancora in grado di autodeterminarsi, magari con alcuni supporti, e che le sue scelte di vita – ancorché discutibili – andassero rispettate. Spendere i propri soldi senza risparmiare, hanno osservato i giudici, non è di per sé un indice di incapacità mentale: finché una persona comprende il significato dei propri atti, lo Stato non può sostituirsi a lei nelle decisioni, a meno che ciò sia strettamente indispensabile per evitare un danno grave. Questo filone giurisprudenziale insiste dunque sul concetto di “amministrazione di sostegno come extrema ratio”: uno strumento da utilizzare solo quando ogni altra misura di aiuto risulti insufficiente. Viene stigmatizzato ogni approccio eccessivamente paternalistico o sbrigativo che, in nome di un astratto bene, finisca per privare inutilmente qualcuno della propria autonomia. Non a caso la Cassazione richiama in queste pronunce l’art. 2 della Costituzione (diritti inviolabili dell’uomo) e i principi espressi dalla Corte Costituzionale, delineando un quadro in cui la dignità e l’autodeterminazione della persona fragile sono fari da seguire. Il messaggio trasversale di tutte queste sentenze – dalla scuola alla tutela degli incapaci – è univoco e affonda le radici nella nostra cultura giuridica: i diritti fondamentali non possono essere sacrificati sull’altare né della burocrazia né dell’economia. Summum ius, summa iniuria, ammonivano i latini: l’applicazione rigorosa di una norma, se spinta oltre misura, può tramutarsi in somma ingiustizia. Ecco perché il diritto, per sua natura, deve sapersi piegare alle esigenze dell’umanità che è chiamato a servire. In questa prospettiva, le evoluzioni normative e giurisprudenziali di cui abbiamo parlato convergono: legislatore e giudici, ciascuno nel proprio ruolo, stanno delineando un sistema in cui la persona con disabilità è veramente al centro, mai più spettatrice passiva, ma protagonista attiva delle decisioni che la riguardano.
In conclusione, l’attenzione crescente verso disabilità, inclusione e fragilità dimostra una sensibilità nuova del nostro ordinamento. Il quadro che emerge è quello di una tutela moderna e inclusiva, dove alle innovazioni legislative corrisponde un’attenta opera di vigilanza da parte della magistratura. Chi vive una situazione di debolezza non viene più considerato solo un soggetto da assistere, ma un cittadino titolare di diritti inalienabili da garantire con ogni mezzo. Il risultato auspicato è un ordinamento in cui il diritto funzioni davvero hominum causa, per la persona, e non come un freddo apparato di regole: un equilibrio in cui cura e autonomia individuale procedano fianco a fianco.
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Redazione - Staff Studio Legale MP